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  • Immagine del redattoreStudio Legale Fiorin

Come ti distruggo il matrimonio: l'art. 151 cod. civ. e la separazione coniugale senza colpa.

Basta la percezione. La sopraggiunta “intollerabilità della convivenza”, causa di giustificazione della separazione coniugale la cui verifica è espressamente prevista dall’art. 151 cod. civ., può non essere fondata su fatti esterni comprovabili. È infatti sufficiente lo stato d’animo soggettivo di uno dei coniugi, che si presume abbia già mostrato una “intollerabile” disaffezione verso l'altro per il fatto stesso di avere proposto il ricorso per separazione, senza che vi sia il bisogno che vengano presentate altre motivazioni.

Un’interpretazione, questa, che i giudici di merito danno per scontata da almeno vent’anni, tanto che gli avvocati familiaristi di solito non pensano nemmeno più a sollevare eccezioni al riguardo. Anzi, probabilmente non hanno nemmeno più presente la questione, e fanno riferimento alla “incompatibilità di carattere” tra i coniugi come a un semplice ornamento dei loro ricorsi, che non deve essere né giustificato né tanto meno comprovato.

Eppure, la Cassazione è appena tornata a pronunciarsi sul concetto di “intollerabilità” della convivenza, quale motivazione necessaria delle cause di separazione. Non è quindi inutile soffermarcisi sopra, se non altro perché le implicazioni che il prevalente criterio di interpretazione di questa norma ha portato con sé sono enormi, rispetto a tutto l’istituto giuridico del matrimonio.

Dunque, ricordiamo che l’art. 151 del codice civile dispone con previsione di carattere generale che la separazione giudiziale possa essere richiesta soltanto “quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole”. Pertanto, già il dato letterale per cui sarebbe da verificare la presenza di “fatti” che giustifichino la sopraggiunta intollerabilità dovrebbe significare che separarsi dal coniuge non è un diritto soggettivo incondizionato, in quanto subordinato all’accertamento di una situazione oggettiva.

A questo riguardo, l’ordinanza del 15 ottobre 2019, n. 26084 (v. Quotidiano del Diritto per la massima), ha invece confermato l'orientamento consolidato per cui, nonostante il tenore della disposizione di legge, la sopraggiunta intollerabilità della convivenza vada intesa come “fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno della vita dei coniugi”. Per salvare un minimo di oggettività, necessariamente connessa a una norma che parla di “fatti” e non di atteggiamenti, è pertanto sufficiente che detta intollerabilità, anche se per l’appunto scaturita da cause puramente soggettive e psicologiche, resti “oggettivamente apprezzabile e giuridicamente controllabile”.

Non è dunque necessario, ha ribadito la Cassazione, “che la situazione di conflitto sia riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la rottura dipendere da una condizione di disaffezione al legame matrimoniale di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza e che sia verificabile in base ai fatti obiettivi emersi, ivi compreso il comportamento processuale, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione, a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità”.

Si tratta chiaramente di una specie di escamotage giuridico, con il quale la Suprema Corte ha nuovamente aggirato la norma che imporrebbe un minimo di motivazione oggettiva per disporre la separazione senza addebito - che comunque non dovrebbe essere intesa come un diritto incondizionato di ciascun coniuge -, sostenendo che la disaffezione individuale sottintesa alla presentazione del ricorso giudiziale sarebbe già di per sé un “fatto idoneo” a motivare… il ricorso stesso.

Come dicevamo, non vi è in questa decisione nulla di nuovo rispetto alla prassi ormai consolidata nelle corti di merito. Tuttavia vale la pena soffermarsi sul significato di questo principio giurisprudenziale, perché spiega le modalità con le quali la disciplina della separazione coniugale e del divorzio si è sviluppata nel nostro ordinamento, fin da quando la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha modificato l’art. 151 cod. civ., abolendo il principio della “colpa coniugale” quale motivazione necessaria per la separazione stessa.

Non si tratta di un argomento banale, perché a nostro avviso da questa innovazione sono discese buona parte delle difficoltà che tuttora l’ordinamento presenta nel trattare le crisi coniugali e le questioni dell’affidamento dei figli. Ma soprattutto - sul piano sociale e metagiuridico - da essa deriva la progressiva distruzione della percezione sociale del significato del matrimonio.

Si tratta infatti del caso probabilmente più importante in cui una tendenza giurisprudenziale ha inciso su una trasformazione sociologica e di costume. Tutto ciò nonostante sia opinione diffusa - e riportata anche nelle motivazioni tralatizie delle varie sentenze su separazione e divorzio - che il mondo del diritto abbia solo cercato di adeguarsi al mutare dei tempi, quando invece nella realtà ha concorso in modo decisivo a orientarli.

Nello stesso tempo, le tante difficoltà odierne nell’introdurre nuove norme che perseguano lo stesso fine di adeguarsi alla “nuova concezione” del matrimonio (si pensi solo ai patti prematrimoniali) dimostrano come, dopo la trasformazione della separazione coniugale in diritto soggettivo incondizionato, il legislatore stia tuttora faticando a restituire coerenza e funzionalità al sistema.

Non senza evidenti motivi, peraltro, perché non è facile trasformare la struttura di un negozio giuridico come il matrimonio - che da migliaia di anni fonda i diritti e i doveri su cui si basa la famiglia, che è il modello di tutta l’organizzazione sociale -, per adeguarlo a una concezione più romantica che non strettamente giuridica. Quella, cioè, del matrimonio non più inteso come vincolo ma come “atto di libertà e di autoresponsabilità” che crea un “luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile”, per citare la recente sentenza Grilli/Lowenstein che ha espunto il criterio del tenore di vita da quelli usati per la determinazione dell’assegno di divorzio.

Ora, il riferimento normativo di quando si parla di intollerabilità della convivenza coniugale è tutto nel citato articolo 151 del codice civile, che la esige in alternativa o assieme al “grave pregiudizio per l’educazione della prole”, quale motivazione oggettiva della separazione. Prima della grande riforma del diritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151), lo stesso articolo del codice stabiliva criteri molto rigidi per la concessione della separazione coniugale, prevedendo che la stessa potesse essere chiesta giudizialmente solo “per causa di adulterio, di volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce o ingiurie gravi”. Al fine di comprendere la severità del sistema previgente, si noti che il secondo comma dell’art. 151 prevedeva espressamente che “non è ammessa l'azione di separazione per adulterio del marito, se non quando concorrono circostanze tali che il fatto costituisca un'ingiuria grave alla moglie”.

Solo nel dicembre 1968 la Corte Costituzionale ha abolito il suddetto secondo comma (sentenza n. 127, depositata il 19 dicembre), ravvisando che esso - come al giorno d’oggi appare a dir poco scontato - fosse contrario alla uguaglianza morale e giuridica dei coniugi sancita dall’art. 29 Cost., senza che la disparità fosse giustificabile con l’esigenza di garantire l’unità familiare.

Nei primi cinque anni dopo l'entrata in vigore della legge sul divorzio, dunque, la separazione giudiziale in Italia era ancora ottenibile soltanto in circostanze molto specifiche e ridotte. La riforma del 1975 è stata a buon diritto considerata la vera e propria introduzione nel nostro ordinamento del “no fault divorce”, il divorzio senza colpa, parallelamente a quanto stava avvenendo negli stessi anni, sotto la spinta della rivoluzione sessuale, negli altri Paesi che il divorzio già lo ammettevano. Infatti, se le circostanze che potevano portare alla separazione e al successivo divorzio diventavano riscontrabili anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, questo comportava che il legislatore - seguendo il nuovo clima che si era instaurato nel Paese che solo un anno prima aveva confermato il divorzio per via referendaria - aveva riconosciuto che la rottura del matrimonio sarebbe anche potuta avvenire in assenza di gravi motivi oggettivi.

La novità si era posta subito come decisiva. Si noti infatti che la legge 898 del 1970 aveva previsto che il divorzio - come tuttora avviene nella generalità dei casi - potesse essere chiesto automaticamente dopo il decorso di un certo periodo di tempo di separazione ininterrotta, senza bisogno di ulteriori giustificazioni. Quindi, abolendo i profili di colpa dalla motivazione necessaria per separarsi, si era aperta la porta alla possibilità di divorziare senza aver mai dovuto fornire le restrittive motivazioni previste dal testo originario del codice.

Eppure, nonostante questo, il nuovo art.151 del codice civile, richiedeva pur sempre l’accertamento di fatti che avessero portato alla intollerabilità della convivenza. Quindi, di per sé continuava a postulare una giustificazione oggettiva per pronunciare la separazione coniugale, che a rigore non avrebbe potuto essere troppo evanescente rispetto al severo criterio alternativo dell’almeno potenziale grave pregiudizio all'educazione della prole, la cui previsione altrimenti sarebbe stata del tutto inutile.

Rimaneva dunque in piedi l'esigenza di fornire un minimo di oggettività al concetto di intollerabilità della convivenza, o meglio di togliergliela, dal momento che si era subito compreso che questa sarebbe stata la chiave per rendere il successivo divorzio ottenibile ad nutum, e cioè a semplice istanza e senza il parere dell'altro coniuge. Risultato che poi, peraltro, è stato effettivamente raggiunto.

Già a partire dagli tardi anni ‘80, la giurisprudenza infatti ha teso a riconoscere la separazione giudiziale senza imporre verifiche sulla natura oggettiva dell'intollerabilità della convivenza, ritenendo sufficienti le deduzioni sulla sopraggiunta “incompatibilità di carattere”. Rimaneva tuttavia evidente la contraddizione tra quella che si era instaurata come prassi comune, inseguendo la mutata mentalità corrente, e la previsione generale dell’art. 151 del codice.

Nel 2007, con la sentenza numero 21099 del 9 ottobre, la Cassazione aveva elaborato la definizione che l'ordinanza citata all'inizio si è in buona parte limitata a riprendere, inventandosi l'idea per cui la intollerabilità della convivenza sarebbe da considerare un fatto psicologico squisitamente individuale. Era stata così fondata, anche nella giurisprudenza di legittimità, l’idea del matrimonio come negozio non più naturaliter vincolante le parti, che come tale avrebbe potuto sciogliersi soltanto in casi oggettivi. Benché quella stessa sentenza del 2007 avesse sostenuto che il fattore dell’intollerabilità dovesse avere una apprezzabilità oggettiva, di fatto lo aveva reso riconducibile a motivazioni anche puramente sentimentali e unilaterali.

Senza questa evoluzione non sarebbe stato possibile l’affermarsi della separazione coniugale e poi del divorzio come fenomeni di massa, per cui, anche al di fuori del caso ampiamente prevalente delle separazioni consensuali (ancora oggi quattro su cinque vengono pronunciate in questa forma), oggi per separarsi dal coniuge non è di fatto più richiesta alcuna motivazione. La cosiddetta intollerabilità soggettiva della convivenza è ormai data per scontata, così come il fatto per cui separarsi e divorziare siano veri e propri diritti soggettivi incondizionati di ciascun coniuge, e anzi primari diritti di libertà.

Il fatto che, con la recente ordinanza in esame, la Cassazione sia tornata sul punto ancora oggi, è indice del fatto che ci sia ancora chi non si rassegna, o che quantomeno vuole segnalare come il divorzio affidato alla volontà unilaterale e insindacabile di ciascuno dei coniugi abbia distrutto l’idea stessa del matrimonio come negozio giuridico. In altri termini, come il matrimonio abbia oggi irrimediabilmente perso la sua natura di contratto regolatore di rapporti giuridici fondamentali, non solo per i due sposi e per i loro figli, ma per tutta la società. Trasformandosi in un “luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile” il matrimonio è diventato poco più che un non senso giuridico, essendo stato svincolato dal principio generale per cui pacta sunt servanda, che regge tutto il diritto delle obbligazioni e dei contratti e in ultima analisi tutto il diritto civile.

Curiosamente, oggi la questione dell’oggettiva intollerabilità della convivenza a volte viene dedotta solo in casi estremi, in cui il mancato rispetto del significato del matrimonio viene a essere portato ai limiti dell’insensatezza. Nella recente ordinanza n. 26084 depositata lo steso 15 ottobre 1019 (anch’essa commentata su Quotidiano del Diritto) si è trattato del singolare caso di un marito straniero che era rimasto formalmente sposato per pochissimo tempo con una donna italiana molto facoltosa, che anche dopo il suo repentino rientro in patria aveva continuato a offrirgli un ricco contributo di mantenimento.

A quanto par di capire, la donna non lo aveva nemmeno informato dalla sua intenzione di avviare una causa di separazione, cosicché lui, sentendosi offeso, ha fatto rispolverare al suo avvocato la questione dell’accertamento dell’intollerabilità della convivenza ai sensi dell’art. 151 del codice civile. Segno che la stessa, che per il resto viene riproposta molto raramente, continua pur sempre a essere una specie di segno di contraddizione, rispetto alla fabbrica di divorzi nella quale si è trasformato il sistema.

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