Diagnosi medica errata, un nuovo criterio di interpretazione
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La diagnosi errata, o non tempestiva, rappresenta una delle principali cause di errore medico e conduce a controversie civili di grande rilevanza. La Corte di Cassazione, infatti, ha avuto spesso occasione di pronunciarsi sui criteri della risarcibilità del danno derivante dal decesso - o dal peggioramento delle condizioni di salute - di un paziente, in quanto conseguenti alla mancata diagnosi di una grave patologia già in atto, ovvero a un inescusabile errore contenuto nella diagnosi stessa, o anche soltanto alla mancata tempestività nell’individuazione della malattia.
Gran parte dei contenziosi giudiziali di questo tipo riguarda patologie oncologiche, che come è noto rappresentano le situazioni più comuni e frequenti nelle quali una tardiva o omessa diagnosi può portare a conseguenze letali o comunque di massima gravità.
L'orientamento prevalente della Suprema Corte, in questi casi, a fronte del decesso del paziente o anche solo della sua mancata guarigione, per lungo tempo è stato quello di applicare il concetto del danno da perdita di chance. Appariva infatti logico che il danno ingiusto causato da una diagnosi errata o tardiva andasse valutato “per sottrazione” rispetto all’ipotesi di una diagnosi corretta e tempestiva. Vale a dire che, per determinare l’entità del risarcimento, i giudici cercavano di quantificare economicamente il mancato guadagno di tempo e/o di qualità della vita che il paziente aveva subito a causa dell’errore medico.
Alcuni importanti provvedimenti del 2018 hanno tuttavia fornito una nuova chiave di lettura per queste casistiche, che oggi portano a una diversa valutazione dell’entità dei danni da diagnosi errata o tardiva. In particolare, l’ordinanza della Cass. civ., Sez. III, n. 7260 del 23 marzo 2018, ha stabilito che il criterio della perdita di chance non va più applicato alla valutazione del danno subito dal paziente, in quanto il pregiudizio subito non consiste nella perdita “in negativo” della possibilità di conseguire un risultato migliore - cioè, in ipotesi, la guarigione o una sopravvivenza più lunga e con minori sofferenze - bensì nell’aver perso il diritto “in positivo” di autodeterminarsi nella scelta dei propri percorsi esistenziali.
La Suprema corte ha ritenuto, in altri termini, che in simili casi si fosse in presenza di un danno autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, e risarcibile in via equitativa, consistente nella lesione di un bene della vita a sé stante, e non nella perdita della astratta possibilità di svolgimento di diverse scelte di vita.
Secondo questa nuova interpretazione, non ha dunque senso parlare di chance - cioè di eventi incerti e rientranti nel campo delle possibilità - laddove la posizione soggettiva del paziente su cui ha inciso la mancata (o errata, o intempestiva) diagnosi sia già certa ed esistente: si sta trattando infatti non di prospettive future, bensì del diritto attuale del paziente a conoscere il proprio stato di salute e a decidere autonomamente come reagire, sottoponendosi o meno a determinate terapie o interventi chirurgici, tentando cure alternative, o al limite accettando in modo consapevole il decorso della malattia.
Superando il ricorso alla figura del danno da perdita di chance - che a lungo era stata applicata nelle decisioni della Suprema Corte riguardanti casi di colpa medica - si è affermata l’incongruità della trasposizione in ambito sanitario di un concetto che era stato elaborato in altri settori del diritto, per stabilire la risarcibilità del danno in situazioni del tutto differenti.
Infatti, il suddetto concetto è nato e viene tuttora applicato per lo più nell’ambito del diritto del lavoro o del diritto amministrativo, per valutare il pregiudizio subito da chi, ad esempio, è stato ingiustamente escluso da un avanzamento di carriera al quale avrebbe avuto diritto, ovvero ha perso la possibilità di partecipare a un concorso pubblico o una gara d'appalto. In tutti questi casi la “perdita di chance” viene individuata per quantificare un danno che dipende da un evento comunque futuro e incerto, rispetto al quale il danneggiato non perde un diritto già attuale, ma solo la concreta possibilità di conseguirlo.
Tuttavia, a un certo punto, nel campo della responsabilità medico-sanitaria è parso non più opportuno ridurre il problema a una questione di possibilità perdute, e cioè di maggiore o minore sopravvivenza. Al contrario, si è preferito puntare sulle conseguenze attuali della minore durata della vita del paziente, così come della sua peggiore qualità, se dovute alla mancanza di una corretta e tempestiva diagnosi. La quantificazione del danno in concreto da risarcire, comunque da effettuarsi in via equitativa, ne ha così risentito in maniera sensibile.
Va riconosciuto che il nuovo criterio consente di affrontare in maniera più accurata, logica e inattaccabile conseguenze dannose invero molto diverse tra loro. Si pensi solo alla differenza di situazioni che si verifica tra un’omessa diagnosi che provochi direttamente il decesso del paziente altrimenti evitabile, e una diagnosi scorretta che incida sulla durata della sua sopravvivenza - con diverse conseguenze sul piano della qualità della vita - nel caso di una malattia dall’esito che sarebbe stato comunque infausto. O ancora, si pensi alla differenza che intercorre tra le predette situazioni e quella dell’errata diagnosi che causi il peggiorare irreversibile di una malattia di per sé meno grave.
In tutti questi casi, l’abbandono del criterio troppo rozzo e meccanico della perdita di chance, per arrivare a una valutazione in positivo del pregiudizio subito dal paziente, ha consentito senz’altro maggiore equità e accuratezza nella valutazione del danno, e nel contempo in molti casi ha chiamato gli avvocati delle parti a individuare e comprovare circostanze che in precedenza sarebbero state giudicate irrilevanti.
Questo peraltro non toglie che una conseguenza del nuovo orientamento della Cassazione, che considera la mancata o errata diagnosi come causa di danno a sé stante, è che ora la domanda di risarcimento può anche essere generica, senza più la necessità di comprovare specificamente che si tratti della perdita di alcune e specifiche chance, prima tra tutte la probabile durata della sopravvivenza e la qualità di vita pregiudicata.
Pertanto, in caso di decesso di un paziente che altrimenti, con una diagnosi corretta e tempestiva, avrebbe avuto un’altissima probabilità di guarire, il medico dovrà rispondere sia del danno biologico cagionato - con le conseguenti problematiche relative alla ereditarietà del cosiddetto danno tanatologico - sia del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari.
Al contrario, se la diagnosi errata o intempestiva ha comportato una significativa riduzione della durata della vita del paziente, così come una peggiore qualità della vita stessa successiva all’evento dannoso, il sanitario ora sarà chiamato a rispondere di un’autonoma tipologia di danno non patrimoniale, costituito dalla minor durata della vita e dalla sua peggior qualità, senza che si debba indagare sulla possibilità di un “risultato migliore”, cioè di una vita più lunga o qualitativamente migliore, concentrandocisi sulla certezza - o rilevante probabilità - per cui il paziente abbia vissuto meno a lungo e/o patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali.
La sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento in tutti questi casi andrà provata secondo il consolidato criterio civilistico del “più probabile che non”. Questo comporta che, nei numerosi casi in cui la Consulenza Tecnica d’Ufficio non sia riuscita a fornire un’opinione certa, riguardo all'eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze del paziente, rimarrà comunque configurabile il ricorso alla figura della perdita di chance. Questa sarà risarcibile equitativamente, tenuto conto di tutte le circostanze concrete del caso, come perdita di possibilità per la quale andrà provato il nesso causale - che appunto deve essere, se non certo, almeno “più probabile che non” - tra la condotta e l’evento. Quest’ultimo andrà inteso come possibilità perduta “nella sua necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza".
Vi è infine il caso, pure esaminato dalla recente giurisprudenza, in cui la CTU abbia accertato che la diagnosi colposamente errata del medico non abbia inciso sul piano causale dello sviluppo della malattia, e nemmeno sulla sua durata e sull’esito finale, ma abbia parimenti “peggiorato o pregiudicato la qualità e la organizzazione della vita del paziente”. Si tratta, ad esempio, di situazioni in cui l’errata o intempestiva diagnosi abbia comportato la necessità di ricorrere a cure e rimedi sanitari altrimenti evitabili, o semplicemente impedito il ricorso a cure palliative. In questi casi l’evento dannoso da risarcire sarà rappresentato proprio dal peggioramento della qualità della vita, intesa nel senso “di mancata predisposizione e organizzazione materiale e spirituale del proprio tempo residuo”, senza che, pure in questo caso, sia più necessario evocare la fattispecie della perdita di chance.