Alienazione genitoriale
Un fenomeno drammatico, e tuttora poco riconosciuto
È un dato di comune esperienza, che ogni familiarista minimamente preparato e in buona fede non può ignorare, che la mancanza - o l’insufficiente presenza - di una delle due figure genitoriali crea sullo sviluppo psichico dei figli danni oggettivi e molto concreti. Tuttavia, benché di fronte al dilagare dei casi di separazione e divorzio l’evidenza del fenomeno si sia imposta da decenni all’attenzione dei tribunali di tutto il mondo, ancora oggi nelle dispute giudiziarie per l’affidamento dei figli talvolta ci si trova a dover affrontare un dibattito sull’esistenza stessa dell’alienazione genitoriale (o parentale).
Gli addetti ai lavori sanno che uno dei primi studiosi che realizzò una mole considerevole di lavori scientifici riguardo alle condotte genitoriali disfunzionali fu l’americano Richard A. Gardner. Fu lui che nel 1985 coniò il nome di “Sindrome di Alienazione Genitoriale” (Parental Alienation Syndrome, PAS), per definire come un disturbo psichiatrico il fenomeno di ostilità preconcetta e immotivata di un figlio preadolescente o anche di età più avanzata nei confronti di un genitore, che insorge principalmente nel contesto delle controversie sulla sua custodia.
Gardner individuò come presupposto principale della sindrome la ricorrenza di una campagna di denigrazione senza giustificazioni oggettive, rivolta da un genitore (ma non solo) contro l’altro. La PAS sarebbe dunque il risultato di una programmazione – o lavaggio del cervello – effettuata dal genitore indottrinante, con un contributo dato dal bambino in proprio, rivolta verso l’obiettivo della denigrazione del genitore bersaglio, fino al suo annientamento morale e comunque alla sua esclusione dalla vita del figlio.
Purtroppo, fin dalla sua formulazione, la questione della Sindrome di Alienazione Parentale è uscita dal contesto accademico ed è stata oggetto di aspre polemiche in ambito giudiziario, che si sono concentrate sulla effettiva esistenza del disturbo.
I detrattori delle teorie formulate da Gardner, infatti, il più delle volte agiscono nell’interesse del genitore alienante che per ovvie ragioni nega di essere tale, e quindi tendono a considerare le manifestazioni di ostilità del bambino verso l’altro genitore come frutto di una convinzione autonoma e quasi sempre giustificata. Costoro hanno concentrato la loro critica sull’impossibilità di trovare un consenso della comunità scientifica sulla definizione clinica della PAS, al fine di negare la stessa esistenza del fenomeno, o comunque l’utilizzabilità del concetto in giudizio.
Nei confronti dello stesso Richard Gardner, e di tutti i numerosi studiosi che col tempo ne hanno ripreso e perfezionato le tesi, tuttora vengono usati toni di asprezza inaudita, piuttosto inusitati per un dibattito che dovrebbe essere puramente scientifico.
Sono atteggiamenti che rivelano come, dietro alla negazione della alienazione parentale, sussistano non solo gli interessi processuali del genitore separato che realizza le condotte di indottrinamento contro l’altro, ma anche precisi presupposti ideologici. Infatti, basti pensare che le accuse più infamanti contro Gardner, e le campagne d’opinione più accese contro la esistenza della PAS, provengono da ambienti fortemente caratterizzati dall’adesione alle ideologie femministe, nonché da psicologi o sedicenti tali che sostengono la teoria tristemente divenuta famosa con il “caso Bibbiano”, riguardo agli abusi sessuali sui minori come fenomeno generalizzato.
Eppure, anche se è bene continuare a discutere sui suoi precisi contorni, è innegabile che il fenomeno esista, e la pratica giudiziaria delle separazioni conflittuali ne rivela continuamente la presenza in modo inequivocabile. Rigettare l’idea stessa dell’alienazione parentale, sulla base del disaccordo della comunità scientifica sull’esistenza di una specifica “sindrome”, è un grossolano errore se non frutto di malafede. Equivale infatti a affermare che, ad esempio, visto che non esiste una sindrome psichiatrica definita alla base dello stalking, allora lo stesso stalking non esisterebbe. Ovvero che, dal momento che l’abuso sessuale non produce conseguenze sintomatiche identificabili - con buona pace delle aberranti teorie degli ideologi del “metodo Bibbiano” - non esisterebbero nemmeno gli abusi.
Può essere senz’altro che l’errore dei sostenitori di Gardner sia stato quello di avere puntato sul riconoscimento della “sindrome” come disturbo psichiatrico del bambino, avendo legato lo studio del fenomeno ai parametri imposti dagli orientamenti attuali del diritto di famiglia. Quest’ultimo infatti è fortemente “puerocentrico”, e cioè tende a riconoscere come valore da difendere solo quello che si giustifica con il prevalente interesse del bambino.
Si consideri infatti che oggigiorno, vista la disgregazione dell’istituzione familiare, un genitore separato o divorziato non si vede più riconosciuto un autonomo diritto a frequentare il figlio e a essere onorato e rispettato da lui, ma ha solo la possibilità di fare valere il diritto alla salute psichica del bambino, sempre che riesca a fare valere il suo interesse a mantenere la presenza di entrambi i genitori nella sua vita, e a non vedere messa in dubbio la propria idoneità.
Di conseguenza, nei procedimenti relativi all’affidamento dei figli minori, è giocoforza che l’alienazione parentale venga riconosciuta solo in quanto possa essere considerata dannosa per il figlio. Pertanto, tutto il dibattito relativo a questo problema si è fino a oggi concentrato sul fatto che il figlio possa subire o meno un pregiudizio autonomo e permanente da parte delle condotte alienanti ingiustificate. Se questo pregiudizio non risulta provato, o comunque non viene individuato con certezza, tuttora i giudici non prendono provvedimenti che penalizzino il genitore alienante solo sulla base dell’ingiustizia del suo comportamento.
Tuttavia, oggi la comunità scientifica è d’accordo nell’affermare che l’alienazione parentale sussiste come fenomeno osservabile clinicamente, sia nei suoi presupposti che nelle sue conseguenze tipiche. Essa viene comunemente definita come “disturbo”, anche per dribblare l’argomento polemico relativo alla inclusione della stessa nel manuale diagnostico di riferimento per l’individuazione delle patologie psichiatriche (il famoso DSM, che comunque già dalla sua quinta edizione ha previsto che l’alienazione parentale rientri appunto nella categoria dei disturbi relazionali).
Giustamente, la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA) nel 2013 ha ribadito che “al di là dell’opportunità che l’autorità giudiziaria si sostituisca alla comunità scientifica nel rilasciare giudizi su argomenti altamente specialistici, si ritiene che il problema relativo all’esistenza o meno di una “sindrome” legata all’alienazione di una figura genitoriale venga posto in modo incongruo”.
Infatti, come già accennato e come sostiene anche la SINPIA, “fenomeni come il mobbing, lo stalking ed il maltrattamento esistono ed assumono valenze giuridiche a prescindere dal riconoscimento di disturbi identificabili come sintomatici”.
In base a ciò, sarebbe urgente cominciare a considerare l’alienazione parentale soltanto per le implicazioni che essa comunque porta con sé, quando si deve decidere sull’affidamento dei figli minori dei genitori in corso di separazione. In realtà, come dicevamo, oggi l’esistenza del fenomeno e la sua tipicità sono ormai accertate al di là di ogni dubbio, e la comunità scientifica “è concorde nel ritenere che l’alienazione di un genitore non rappresenti di per sé un disturbo individuale a carico del figlio, ma piuttosto un grave fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psicoaffettivo del minore stesso”. Dunque, non ha senso attardarsi su un dibattito, peraltro fortemente ideologico, sulla natura psichiatrica del disturbo.
In Italia abbiamo già veduto diversi arresti giurisprudenziali in cui – accogliendo l’opinione di consulenti tecnici che hanno riscontrato i sintomi tipici dell’alienazione parentale in casi concreti – si è deciso per una inversione dell’affidamento del figlio minore, in modo che il genitore alienante non possa continuare la condotta giudicata dannosa per il figlio stesso, e nel contempo l’altro genitore possa tornare a essere quel fattore positivo che naturalmente è, per il buon sviluppo dell’affettività e della personalità della prole.
La presenza dell’alienazione parentale è riconosciuta quando sono individuati almeno un certo numero di sintomi clinici, che dimostrano che il genitore alienante ha attivato un programma di denigrazione contro l’altro (generalmente indicato come genitore alienato o genitore bersaglio), allo scopo di ottenere che il figlio si rifiutasse di frequentarlo. Certo, il problema maggiore per ottenere decisioni giudiziarie che contrastino il fenomeno ancora oggi consiste nel fatto che esistono non solo resistenze culturali, ma anche ragioni di opportunità che impediscono che le decisioni sull’affidamento vengano prese sulla base della sola alienazione parentale.
Come si è detto, questa è rilevante sul piano giudiziario solamente qualora il contrasto alla stessa sia giudicato decisivo per l’interesse del figlio a essere sottratto dai potenziali danni che essa comporta per il suo buon sviluppo psichico e affettivo. Dunque, se nel concreto questi danni sono giudicati non di capitale importanza, ovvero sussistono altri fattori che sconsigliano l’inversione dell’affidamento in favore del genitore alienato – come ad esempio le condizioni di vita di quest’ultimo, la scarsa disponibilità di tempo o l’impossibilità di ospitare adeguatamente il figlio, o altre carenze o ostacoli oggettivi – allora l’alienazione parentale non sarà giudicata sufficiente per la suddetta decisione.
Ciò in quanto, come si ripete, l’alienazione parentale non è mai giudicata in quanto condotta “ingiusta” del genitore alienante, mentre il diritto a non vedersi ingiustamente denigrato e escluso dalla via del figlio non è riconosciuto come diritto proprio del genitore, ma solo sulla base dell’interesse del figlio.
Questo non toglie che, molto spesso, ci sono padri separati che a fronte delle condotte ostative dell’altro genitore - che è quasi sempre la madre, che nella stragrande maggioranza dei casi continua a convivere coi figli dopo la separazione - invocano l’alienazione parentale come se la sua rimozione fosse un loro diritto da fare valere.
Ma in realtà, gli abusi relativi al mancato rispetto della modalità sull’affidamento nel nostro ordinamento vengono sanzionati in modo a sé stante (v. art. 709 ter del codice di procedura civile), che prescinde dalla presenza o meno del disturbo.
Occorre quindi che gli operatori del diritto sappiano sviluppare un’adeguata informazione sull’alienazione parentale, per evitare di inseguire risultati giudiziari concretamente impossibili, e nello stesso tempo per vincere i pregiudizi che pure ingiustamente sussistono riguardo a questo fenomeno che è uno dei più gravi e umanamente dolorosi che si possono riscontrare nel diritto di famiglia.
Infatti, fin troppo spesso, le condotte alienanti realizzate dal genitore che attrae il figlio nel suo odio per l’ex partner avvengono con il coinvolgimento di altre persone, non esclusi professionisti del diritto o della medicina, e raggiungono pure un certo grado di efferatezza, che può arrivare alle false denunce di maltrattamento e di abusi sessuali, o comunque a reazioni estreme che di per sé diventano dannosissime per tutti, e non solo per il minore.
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