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Immagine del redattoreStudio Legale Fiorin

Padri, i veri discriminati dei nostri giorni

Lo dimostrano la gran parte dei casi di separazioni e divorzi


Da "Il Timone" on line del 24 novembre 2023


Quante stupide galline che si azzuffano per niente. Il verso immortale di Franco Battiato si adatta bene, per certi versi, a quanto sta accadendo a seguito della terribile vicenda di Filippo e Giulia. Specie se si osserva la situazione con l’esperienza di un avvocato familiarista. Punto di vista assai utile per conoscere la verità, visto che il clamore mediatico che si è scatenato su questo fatto di cronaca è interamente composto di bugie ideologiche e opportunismo politico. Nel mondo delle separazioni e dei divorzi la realtà appare ben diversa, rispetto alla pretesa minaccia del patriarcato che non vuol morire.

Ad esempio, si guardi alla cosiddetta maternal preference, la cui esistenza è confermata da tutte le statistiche. Si tratta del pregiudizio per cui, nelle separazioni tra i genitori, i figli piccoli tendono a venire collocati, nonostante l’affidamento sia per legge condiviso, quasi sempre presso la madre. Solo essa dimostra che la logica del diritto di famiglia, ancora oggi, non è affatto indifferente alla differenza sessuale. Ma per molti aspetti, si dovrebbe piuttosto parlare di persistenza del matriarcato. Infatti, riguardo agli assegni di mantenimento da versare per la prole, è tuttora difficile per un padre separato dei nostri giorni far valere il principio per cui il contributo delle donne al ménage familiare è diventato sempre più economico, e sempre meno domestico. Ciò nonostante, i giudici continuano a stabilire contributi obbligatori di mantenimento a carico dei soli papà, anche quando i redditi dei due genitori risultano del tutto equivalenti.

Si dirà che questo dipende dal fatto che, per l’appunto, i figli di genitori separati rimangono quasi sempre in casa con la mamma (e il padre si deve arrangiare a trovare un’altra sistemazione). Inoltre, le donne lavoratrici, sia prima che dopo il divorzio, in genere devono affrontare gran parte delle incombenze domestiche e di cura della prole. Compiti onerosi che ancor oggi – il patriarcato! – agli uomini che lavorano vengono risparmiati. I congedi di paternità, e gli altri contributi pratici dei papà alle esigenze quotidiane dei figli piccoli, sono ancora relativamente scarsi. Ecco, quindi, lo squilibrio “patriarcale” che subdolamente persisterebbe nelle abitudini della gente comune, in virtù del quale sarebbe equo compensare economicamente – ma a carico dei papà, e non dei datori di lavoro o delle casse pubbliche – il tempo che le mamme perdono in ufficio.

Tuttavia, è sempre più frequente che ai papà separati, che una volta dovevano accontentarsi dei classici fine settimana alternati, vengano accordate anche una o più giornate infrasettimanali da trascorrere con la prole. Questo, ovviamente, già comporta un bilanciamento delle spese di vitto e alloggio da affrontare. Però, nelle decisioni di molti tribunali, almeno in media, gli importi degli assegni di mantenimento da versare alle madri non risentono di questo riequilibrio. Nella scorsa legislatura, il mai abbastanza lodato senatore Pillon aveva tentato di introdurre una riforma che, a ben vedere, nella prassi non sarebbe stata più di tanto epocale.

In base a essa, i giudici avrebbero dovuto ripartire la permanenza dei figli minori per non oltre i due terzi del tempo con un solo genitore. Nulla di diverso di quanto già avviene in molti casi. Ma all’epoca, la levata di scudi delle associazioni del settore, comprese quelle delle mamme cattoliche, così come quelle dei politici e degli avvocati familiaristi, è stata imponente e molto connotata ideologicamente. L’allarme è stato sempre quello del risorgente patriarcato, che – come le famose forze oscure della reazione in agguato dei tempi di Giovannino Guareschi – avrebbe attentato ai sacrosanti diritti delle donne. Peccato che, in realtà, si trattasse di un criterio raccomandato da anni anche dal consiglio d’Europa, già in atto soprattutto in quei Paesi dove si dice che il patriarcato sia già stato sconfitto.

Gli esperti confermano che, laddove introdotta, la pratica della shared custody, cioè dell’affidamento dei figli effettivamente condiviso, ha dato buoni frutti per salvaguardare l’equilibrio psicofisico dei ragazzi. Inoltre, si tratta di un criterio che ad altre latitudini è stato salutato dagli esperti del settore – e pure dai politici – come favorevole agli interessi delle donne che lavorano. In questo modo, infatti, esse sono riuscite a essere meno gravate dai compiti di cura della prole, in un’ottica di collaborazione con l’ex partner maschile.

Solo in Italia, il pensiero di aumentare i tempi di permanenza dei figli con i papà ha causato reazioni poco meno che isteriche. La verità è che, dietro all’affidamento dei figli nella separazione, ci sono logiche di potere e di vantaggio economico alle quali le donne “matriarcali” non vogliono affatto rinunciare. Si pensi solo al privilegio di vedersi assegnata la casa familiare, indipendentemente dal titolo di proprietà, specie in un Paese come l’Italia, dove la grande maggioranza dei cittadini è proprietaria dell’abitazione in cui vive.

Vale a dire che, quando conviene, per le mamme italiane il patriarcato può ancora dimostrarsi un ottimo affare. Del resto, nonostante il divorzio sia un’evenienza sempre più frequente e facile da ottenere, l’Italia è stato uno degli ultimi Paesi al mondo a svincolare il livello degli assegni divorzili dal pregresso tenore di vita della famiglia. Fino a poco tempo fa, invece, il matrimonio era ancora la fonte di una vera e propria rendita di posizione, per il coniuge che si continua a presumere il più debole.

Tant’è che, nonostante gli ultimi interventi della riforma Cartabia, nessuno ha pensato di adeguare alla mutata situazione sociale quel codicillo della legge sul divorzio che prevede che il suddetto assegno divorzile cessi automaticamente, qualora l’avente diritto “passi a nuove nozze”. Come se si desse ancora per scontato, con buona pace della parità tra i sessi, che le donne siano tuttora nel buon diritto di appoggiarsi all’ala protettrice del reddito maschile, per cui l’assegno a loro favore deve cessare soltanto qualora subentri qualcun altro che si occupi del loro mantenimento.

E ancora, la nostra legge prevede espressamente che le mogli abbiano diritto a conseguire la pensione di reversibilità del marito, anche se avevano divorziato molti anni prima, o se si erano sposate da poco tempo. Il patriarcato quando fa comodo, insomma. Basterebbe un minimo di onestà intellettuale, per coloro che conoscono la situazione dal punto di vista professionale, per smetterla di fare finta che nella famiglia – o meglio, in ciò che ne resta – le donne siano sempre e comunque la parte più debole. Questo, almeno, al di fuori dei casi di violenza materiale, che esistono eccome, nessuno lo nega, ma sono una minoranza statistica nelle centinaia di migliaia di separazioni e divorzi che in Italia si pronunciano ogni anno.

E poi, non esiste soltanto la violenza fisica ma anche quella psicologica. Sulla base di quest’ultima, secondo il nostro ordinamento, un uomo può essere allontanato da casa per ordine del giudice da un giorno all’altro. Anche se non ha mai alzato le mani, né commesso reati violenti verso la compagna. Non risultano casi significativi in cui ad essere allontanata da casa sia stata la moglie. Eppure, ancora una volta, l’amor di verità imporrebbe agli operatori del diritto di ammettere che, nelle crisi familiari, la violenza psicologica femminile è un fattore parimenti esistente. Il patriarcato, dunque, ancora oggi esiste davvero. Così come continua a esistere il principio matriarcale. Ma più che di problemi in sé, si tratta di feticci ideologici sui quali le lobby della guerra tra i sessi continuano a marciarci sopra. Senza ritegno, e senza alcun rigore scientifico.

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