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Immagine del redattoreStudio Legale Fiorin

Il vero segreto del matrimonio

Fabbrica dei divorzi e matrimoni sempre più instabili: così la nostra società scompare. Ecco perché è fondamentale tornare alle origini del "sì" pronunciato dagli sposi


Da IlGiornale.it del 3 giugno 2023:


È ancora possibile il sogno dell'amore per sempre? La crisi conclamata del matrimonio sembrerebbe dire di no. Tra pochi anni, anche in Italia i conviventi non sposati supereranno le coppie che non hanno voluto rinunciare ai fiori d'arancio. Per non parlare del numero sempre crescente dei single, per scelta o per necessità indotta da una precedente separazione. Gli statistici sembrano concordare sul fatto che siamo già entrati in una società post-matrimoniale.

Tuttavia, sul fatto che un’esistenza senza vincoli nuziali sia ciò che veramente le persone desiderano, si può ancora avere qualche dubbio. Tutto sommato, non solo nei film, resistono ancora i wedding planner e le liste di nozze, che sono un vero affare per i negozianti e i produttori di articoli per la casa, se non altro perché chi sceglie i regali è diverso da chi li paga.


Il tutto senza considerare il fascino che ancora conservano certe scene da mille e una notte, a metà tra le atmosfere orientali e la tradizione occidentale, come quelle del recente matrimonio del principe Hussein di Giordania con la borghese saudita Rajwa Khaled Al-Seif.


È vero che sono cose che non riguardano la gente comune. La magia dell’abito bianco, del velo con lo strascico e dello sposo in divisa da ufficiale ispirano sempre meno le nostre giovani ragazze. Chi ancora si sposa lo fa a un’età sempre più avanzata, magari quando già sono venuti i figli. Tra l’altro, tanto per rimanere nell’ambito di ciò che rimane della aristocrazia internazionale, suscitano molto più interesse i ricorrenti pettegolezzi su un imminente divorzio tra il principe Harry e Meghan. Anche perché, fin dall’inizio, si era stati in tanti a malignare sulla eccessiva intraprendenza di lei, degna figlia della cultura del me too e del woke.

Di certo, l’individualismo e la cosiddetta “cultura dei diritti” non sono compatibili con l'ideale di una vita da trascorrere in due. Persino la Chiesa Cattolica, ultimo baluardo della visione tradizionale del matrimonio, sembra avere preso atto della nuova situazione. Lo scorso 30 maggio, a Palermo, un decreto dell'arcivescovo Corrado Lorefice ha stabilito che d’ora in poi non sarà più necessario il preventivo sacramento della Cresima per coloro che, dopo aver abbandonato da molti anni la pratica religiosa, alla fine chiedono di sposarsi in chiesa. Questo stesso arcivescovo, ovviamente, non si fa più scrupolo di chiamare “conviventi”, con la massima condiscendenza, quelli che una volta erano i “pubblici concubini”. Del resto, lo stesso papa Francesco, nei suoi primi anni di pontificato, con le sue disposizioni sopra i tribunali ecclesiastici, seguite dalla controversa esortazione Amoris Laetitia, ha mostrato di essere alquanto favorevole a una sorta di “desacralizzazione” del matrimonio.


Anche la comune esperienza degli avvocati familiaristi, ormai, non può che confermare che le giovani coppie hanno ragione a considerare inutile il vincolo nuziale. Esso infatti crea reciproci obblighi, ma nello stesso tempo non attribuisce alcuna garanzia, di fronte all’eventualità che l’altro decida di andarsene per la propria strada, rinnegando gli impegni presi senza nemmeno dover dare spiegazioni.

Sono i frutti della mentalità individualista che è scaturita dalla rivoluzione sessuale, negli anni Settanta. Soprattutto, è il naturale esito della progressiva privazione del matrimonio di qualsiasi rilevanza pubblica.

Se alla società non importa nulla del fatto che una coppia sia sposata o meno, allora finisce quella aspettativa sociale che – per quanto suoni scandaloso dirlo – ha garantito pace e stabilità per molti secoli. Era la paura dello stigma sociale a fare sì che le persone comuni fossero indotte a conservare in piedi il loro matrimonio, anche di fronte all'esaurirsi della passione, alle asprezze e alle tentazioni della vita. Sarà stato un modo di vivere ipocrita, ma funzionava, e a conti fatti presentava meno inconvenienti.

Tanto che, di fronte al crollo di una unione matrimoniale, le persone continuano ancor oggi ad andare incontro a profonde sofferenze esistenziali. E anche se non lo dice nessuno, per non disturbare il funzionamento della fabbrica dei divorzi, ancora maggiore è il dolore – e il pregiudizio psicologico che rimane per l’intera vita – sperimentato dai figli del divorzio di massa. Per non parlare poi dei costi economici, sociali, addirittura sanitari, derivanti dall’esplosione dei fenomeni di depressione e di disagio che sono indotti dal venir meno dell’antica stabilità familiare.


Oggi le persone che ancora si sposano in chiesa sono meno della metà di quelle che, per scelta o per necessità, si limitano a presentarsi davanti all’ufficiale di stato civile. Negli anni Ottanta, che non sono poi così lontani, i matrimoni in chiesa erano invece oltre l’80% del totale. Tuttavia, esiste un principio che non potrà mai cambiare: il matrimonio non serve tanto agli sposi quanto all'insieme della società. Se la società non lo pretende più, prima o poi anche le singole persone smettono di sentirne il bisogno.

Claude Lévi-Strauss, antropologo francese non sospettabile di alcun bigottismo religioso, ha dimostrato che nella storia dell’umanità la famiglia non era mai stata quello che sembra essere diventata nelle società occidentali degli ultimi decenni. Prima delle trasformazioni avviatesi sul finire degli anni Sessanta, la stabilità familiare non era mai stata concepita come la conseguenza di un semplice contratto tra privati. Non era sufficiente il consenso di una coppia di individui, che tra l’altro oggigiorno – love is love – la moda corrente presume che non debbano nemmeno essere necessariamente di sesso diverso.

Insomma, la famiglia non era mai stata vista come una semplice intesa tra due individui adulti, che decidono di vivere insieme, per ragioni sentimentali sempre revocabili, una parte più o meno lunga della loro vita. Tanto meno era stato mai considerato accettabile che i predetti individui concepissero anche la nascita dei figli in funzione di se stessi e dei propri desideri.

In realtà, secondo Lévi-Strauss, la famiglia non sorge né dal consenso né dall’affettività, bensì dalla natura stessa dei comportamenti umani. È una struttura di base della socialità, e non il frutto di una scelta, né è l’espressione di una specifica cultura o tradizione. Il matrimonio, infatti, dovunque e fin dalla notte dei tempi, è sempre stato il principale fatto pubblico attorno al quale si organizzava la società, e non un semplice accordo tra privati.


Su questo punto c’era sempre stato un consenso sociale unanime, non solo fin dai tempi dell’antica Roma, ma anche da quelli delle più antiche civiltà mediterranee e mediorientali. La generazione dei figli è sempre stata concepita come una delle finalità principali – anzi talvolta l’unica finalità davvero essenziale – del matrimonio. Per dirla con l’Imperatore Augusto, in una sua orazione del 131 a. C. sul matrimonio che è giunta fino a noi: “Se potessimo vivere senza donne faremo volentieri a meno di questa seccatura (testualmente: ea molestia), ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della razza piuttosto che ricercare piaceri effimeri”.

Insomma, anche se nasceva da un contratto a carattere privatistico, spesso mediato dalle famiglie di origine degli sposi, prima della rivoluzione sessuale il matrimonio era comunque riguardato come un affare che riguardava tutta la comunità. La certezza della paternità, l’ordine dei rapporti interpersonali, la responsabilità della famiglia nell’educazione dei figli, la trasmissione della cultura di padre in figlio, erano sempre state considerati interessi collettivi, pubblici, assolutamente essenziali. Quindi non era nemmeno concepibile per i fidanzati sostenere che lo sposarsi, e il rimanere sposati, fosse cosa che riguardava solamente loro due.

Allo stesso modo, e per lo stesso motivo, il vincolo nuziale era sempre considerato qualcosa che riguardava anche la divinità: gli dei pagani, come il Dio dell’antico Israele e le divinità delle altre popolazioni semitiche del Medio Oriente, hanno sempre fatto da protettori e da garanti del matrimonio.


Nella Roma repubblicana, gli sposi sacrificavano a Giove capitolino, e si spartivano una torta di farro, dalla quale per l’appunto prendeva il nome il rito nuziale della confarreatio. Più avanti, gli sposi avrebbero sacrificato pecore, buoi, maiali, a seconda delle possibilità familiari, ma il riferimento religioso del matrimonio è sempre stato centrale e immutabile sia nella romanità, che nelle altre culture antiche.

Il matrimonio civile, invece, è una concezione che risale solo all’Ottocento napoleonico. La saggezza dei cattolici di quel tempo aveva compreso molto bene come stessero le cose, e cosa sarebbe potuto succedere. Il beato Antonio Rosmini, in anni assolutamente insospettabili, commentando l'introduzione del matrimonio civile nel Lombardo Veneto scrisse parole che ancora oggi sorprendono per la loro attualità.

Secondo il filosofo roveretano, infatti, togliere al matrimonio un riferimento religioso, per farlo entrare nell'orbita delle leggi civili, “avrebbe significato dargli un terreno fluido e insicuro legato agli umori delle maggioranze parlamentari”. In quel modo, “l'istituto nuziale avrebbe finito per ridursi a una realtà povera, labile e in balia delle passioni del momento”. “Di questo passo” - scrisse testualmente Rosmini - “si sarebbe arrivati a un punto in cui le coppie si sarebbero chieste: ma che ragione c'è per sposarsi, non possiamo convivere e basta?”

Fa impressione considerare che queste parole sono state scritte nel 1852, ancor prima dell'unità d'Italia, quando il divorzio e il libero amore erano concetti assolutamente impensabili per la totalità della popolazione. Come del resto lo era la stessa eventualità di un matrimonio davanti al sindaco e non al parroco.


Eppure, al giorno d'oggi, in una società dove siamo tutti indotti a vivere soltanto per noi stessi e i nostri desideri, di quella dimensione pubblica del matrimonio ce ne sarebbe ancora molto bisogno. Le nefaste conseguenze economiche delle separazioni, le esplosioni di violenza tra i sessi che noi sappiamo considerare solo come “femminicidi”, così come i diffusi malesseri psicologici che colpiscono chi si ritrova privato della stabilità familiare, dovrebbero aver già fatto capire, a chiunque abbia gli occhi per vedere, che senza il matrimonio stabile la società soffre e deperisce.

La verità è che il matrimonio non può fare a meno della sua dimensione pubblica. La società nel suo insieme deve riscoprire che è nell'interesse di tutti che una coppia rimanga unita, per la funzione sociale che tuttora ha il mantenimento della certezza della paternità, e del vincolo stabile tra due persone che, nel rispetto dei reciproci ruoli, continuando a prendersi cura della educazione dei figli. Non si può pretendere che siano i singoli interessati a farlo, se essi vengono lasciati soli.

Prima che ci si arrivi a comprenderlo, nel frattempo, l'unica via di speranza per le persone comuni è quella di comprendere che un’unione stabile tra i due sessi, che punti a durare per tutta la vita, per esistere deve necessariamente ispirarsi a qualcosa di più grande che le faccia da garanzia.

“Allorquando due fedeli intendono perpetuamente unirsi in quella unione perfetta e compiuta che è il matrimonio, si uniscono non solo in ciò che hanno di naturale, ma anche in ciò che hanno di soprannaturale”, scrisse in altre circostanze il citato Antonio Rosmini.


Oggi che quella garanzia non la dà più lo Stato, se si vuole evitare la disperazione della solitudine di ritorno, e ancora si desidera spendere la vita in due, nell'ambito di “quella cosa vera che è una famiglia”, per dirla con Giorgio Gaber (Il Dilemma), occorre fare non da soli. È indispensabile un punto di riferimento superiore, e rimanendo solo nell’ambito della coppia non lo si può trovare.

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