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  • Immagine del redattoreStudio Legale Fiorin

Ambiguità della funzione compensativa dell'assegno. Può rientrare dalla finestra il tenore di vita?

Proseguono i tentativi della giurisprudenza di adattare ai casi concreti i nuovi principi sull’assegno di divorzio, stabiliti - all’esito di un percorso di adeguamento all’attuale realtà sociale - dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 18287 del 2018.

Ricordiamo dunque che quest’ultima storica decisione, pur confermando l’abbandono del criterio della conservazione del tenore di vita goduto dalla famiglia in costanza di matrimonio, ha stabilito la necessità di una valutazione “unitaria” delle due fondamentali esigenze sottintese all’istituto dell’assegno di divorzio: la prima, quella cosiddetta assistenziale, che è rivolta a garantire il coniuge più debole economicamente rispetto alle difficoltà in cui viene oggettivamente a trovarsi dopo la cessazione del matrimonio, in nome della cosiddetta solidarietà post-matrimoniale; la seconda, detta perequativa-compensativa, che è invece quella per la quale al giudice spetta, indipendentemente dalle disparità reddituali tra le parti e dalle condizioni economiche del coniuge meno abbiente, introdurre per l'appunto una sorta di “compensazione” economica per la pluriennale dedizione alla cura della famiglia. Questa seconda funzione dovrebbe operare in modo particolare laddove da parte del coniuge avente diritto all’assegno siano state sacrificate le proprie attitudini lavorative e possibilità di carriera.

I suddetti nuovi principi sembrano in effetti più adeguati alla mutata situazione sociale, dal momento che la dipendenza a vita dall’istituto matrimoniale della moglie, che si dedichi sempre e solo ai compiti di cura della casa e dei figli, non è più ravvisabile nella realtà. Quello che - proprio per detto motivo - dovrebbe invece essere definitivamente tramontato è il principio per cui il matrimonio, specie se durato abbastanza a lungo, debba costituire di per sé una garanzia di accresciuto status economico per il coniuge che proveniva da condizioni di partenza meno fortunate.

Eppure, osservando la giurisprudenza di merito, vi è l’impressione che talvolta vengano emesse decisioni che, pur ossequiando i nuovi principi, considerino la disparità economica e reddituale tra i due ex coniugi come un elemento di per sé meritevole di essere “compensato”, anche se la situazione era preesistente al matrimonio, o comunque sia dipesa esclusivamente dalle autonome possibilità e capacità reddituali del coniuge che al momento del divorzio risultava più benestante.

Il criterio del tenore di vita goduto dalla coppia in costanza di matrimonio sta dunque rientrando dalla finestra? Forse è eccessivo dirlo, ma in alcune sentenze si nota la tendenza a farlo sopravvivere, sia pure con diverse motivazioni, formalmente ossequiose della svolta impressa dalle Sezioni Unite. Sembra questo il caso della sentenza n. 765 del 16 gennaio 2020 (credits to Quotidiano del Diritto per il testo), con la quale la sesta sezione della Cassazione ha confermato un assegno divorzile di 350 euro mensili, a carico di un coniuge che non è riuscito a fare valere la tesi della mancanza sia delle esigenze assistenziali che di quelle compensative.

Nella specie, infatti, il marito onerato dell’assegno guadagnava oltre sessantamila euro all'anno, ma l'ex moglie non era affatto priva di potenzialità economiche, dichiarando un reddito di ventunomila euro annui, grazie a un autonomo impiego dipendente.

Le sentenze di merito avevano riconosciuto l'assegno divorzile perché avevano ritenuto di dover applicare alla fattispecie il criterio compensativo, in quanto la signora aveva lasciato il suo paese d'origine - il Perù - soltanto in occasione del matrimonio, per venire a vivere in Italia, dove si era sempre presa cura della famiglia e dei figli. Essa aveva ritrovato una vita autonoma subito dopo la separazione, che per lei era stata occasione di intraprendere un impiego retribuito, grazie al quale aveva potuto dapprima pagare l’affitto di casa e poi addirittura acquistare l'appartamento dove era andata a vivere, sottoscrivendo un mutuo e nel contempo collaborando al mantenimento del figlio.

Pertanto, se nella fattispecie di certo non sussisteva l’esigenza assistenziale, a detta della difesa del marito non avrebbe nemmeno dovuto essere riconosciuta quella perequativa-compensativa, visto che non risultava che la signora avesse una propria specifica professionalità, almeno potenziale, né una carriera preesistente al trasferimento in Italia che fosse stata interrotta a causa del matrimonio, né che avesse contribuito in qualche modo alla costruzione della carriera del marito, che era un militare dei Carabinieri. Sembrava dunque che la moglie fosse stata gratificata dell’assegno divorzile quasi a titolo di risarcimento morale, per essersi dedicata per qualche anno alla famiglia e all’unico figlio, invece di mettere a reddito le capacità lavorative dimostrate in seguito. Se vogliamo, in questo caso la funzione compensativa dell’assegno è stata considerata come una specie di indennità a posteriori, per il lavoro prestato in ambito domestico, senza considerare che lo stesso poteva già dirsi ricompensato dagli apporti reddituali del marito.

Tuttavia, rispetto alle rimostranze della difesa di quest’ultimo, che aveva fatto presente come un assegno di 350 euro mensili sembrasse ispirato dall'esigenza di conservare alla signora l’ormai famigerato “tenore di vita”, in spregio ai nuovi criteri, la Cassazione ha risposto che in realtà si trattava di garantire alla moglie di “poter mantenere condizioni di vita adeguate e consone al progetto familiare e sociale che la cessazione del matrimonio aveva interrotto”. Quale sia però la differenza tra quest’ultimo concetto e quello - formalmente negato - della conservazione del preesistente tenore di vita, è tutt’altro che chiaro. Ciò a conferma del fatto che esiste una certa tendenza a utilizzare il criterio compensativo non per retribuire l’apporto dato alla costruzione del patrimonio familiare o a quello dell’altro coniuge - come vorrebbero le definizioni contenute nell’art. 5, comma VI, della legge n. 898 del 1970 - bensì a titolo di adeguamento automatico della disparità economica delle parti, quasi operando una presunzione assoluta sul fatto essa sia sempre da imputare al contributo pluriennale del coniuge che si era dedicato alla cura della famiglia e dei figli.

E questo nonostante le prese di posizione di principio apertamente contrarie di altre sentenze, che hanno invece sancito che la disparità economica risultante tra le parti dopo la fine del matrimonio non rilevi di per sé, in quanto non si deve trasformare l'assegno di divorzio in una sorta di tassa sugli incrementi economici realizzati in costanza di matrimonio, cercando di “prolungare” gli effetti dello stesso, e facendo diventare l’assegno quasi come un “prelievo forzoso” proporzionale ai redditi (v. ad esempio la sentenza n. 24932 del 7 ottobre 2019, qui già ampiamente commentata).





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