La semplice esistenza di un divario economico e reddituale tra le parti può costituire, di per sé, la prova presuntiva del diritto all’assegno di divorzio, in funzione perequativa e compensativa, in favore del coniuge più debole. Tutto questo in nome di un astratto principio di “giustizia distributiva” all’interno della famiglia. È quanto emerge dall’Ordinanza di Cassazione, Sez. I Civile, del 9 settembre 2024, n. 24110. Laddove tale orientamento dovesse consolidarsi, è evidente che, per la determinazione dell’assegno divorzile, finirebbero per rientrare dalla finestra i principi e i parametri che invece, come è noto, la Suprema Corte ha invece voluto superare fin dal 2017.
Vi è stato al riguardo un precedente, nella sentenza di Cassazione del 2023, n. 35434, che tuttavia ancora richiedeva al giudice del divorzio di operare la verifica dell’esistenza di “una organizzazione familiare che ha permesso al marito di dedicarsi al lavoro”, in modo da poter dire che – secondo l’id quod plerumque accidit – lo scarso impegno lavorativo della moglie, rispetto all’attività particolarmente impegnativa, e decisamente molto più remunerativa, del marito, abbia reso necessario che la donna si fosse occupata in modo continuativo della casa e della cura della prole.
L’Ordinanza all’inizio citata, tuttavia, ha voluto fare a meno della necessità di un accertamento sulle attività effettive dei coniugi, per affermare in modo generale un principio di giustizia distributiva endofamiliare, che dovrebbe sopravvivere al divorzio. Questo è decisamente un passo indietro rispetto a quanto la Suprema Corte ha affermato negli ultimi anni, per adeguare la materia dell’assegno divorzile a una situazione ampiamente mutata rispetto al 1970, quando il legislatore ha stabilito all’art 5 della legge sul divorzio (n. 898 del 1° dicembre 1970) che l’assegno in esame andasse riconosciuto "tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi...valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio", e comunque soltanto quando il coniuge più debole economicamente "non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive".
Ripercorriamo brevemente l’evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni sul tema. A seguito della storica sentenza n. 11504 del 2017 (caso Grilli), che aveva messo in discussione il parametro del pregresso "tenore di vita" della famiglia – per cui tanto più lo stesso era stato elevato e tanto più avrebbe dovuto essere pingue l’assegno divorzile – la Suprema Corte ha cercato di affermare che, nella nuova concezione del matrimonio conseguente alla mutata posizione sociale ed economica della donna, non era più giustificabile che quest’ultima potesse considerare le proprie nozze come una sistemazione per tutto il resto della vita. Vale a dire, come una rendita di posizione che avrebbe esonerato la moglie per sempre, anche in caso di divorzio, dall’onere di provvedere a se stessa.
Le Sezioni Unite, con la sentenza dell’11 luglio 2018 n. 18287, hanno così precisato i nuovi criteri da seguire per la quantificazione dell’an e del quantum relativo all’assegno divorzile. Si è pertanto stabilito che detto assegno avrebbe dovuto avere una funzione assistenziale e una funzione “compensativa e perequativa”, da valutarsi distintamente.
L’esigenza assistenziale, in concreto, risponde all’intenzione di assicurare che il coniuge più debole, a causa del divorzio, non venga privato della possibilità di continuare a condurre un’esigenza dignitosa. Il legislatore del divorzio ha sempre avuto questa preoccupazione, tant’è che ancora oggi – nonostante la mutata situazione sociale ed economica – resiste al penultimo comma dell’art. 5 della legge sul divorzio (n. 898 del 1° dicembre 1970) il criterio per cui l’assegno cessa automaticamente qualora l’avente diritto “passi a nuove nozze”.
Quest'ultimo inciso è, nel linguaggio ancor prima che nella sostanza, la prova evidente di come il legislatore del divorzio abbia originariamente pensato alla donna come a un soggetto non pienamente autoresponsabile, che avesse diritto a essere assistita finché non fosse passata sotto l’ala protettiva di un nuovo marito, al quale oggi si tende a equiparare un nuovo convivente more uxorio.
Un pregiudizio ormai anacronistico, che però sopravvive tuttora, assieme al persistente principio della indisponibilità dei diritti in materia familiare, per cui la donna non è ancora, di fatto, considerata in grado di contrattare liberamente le condizioni patrimoniali del proprio divorzio, ed eventualmente rinunciare spontameamente all’assegno di mantenimento. Se si pensa che, ancora oggi, il caso delle nuove nozze è l’unico nel quale il diritto all’assegno cessa automaticamente, dovendosi altrimenti verificare – senza riferimenti certi – le mutate condizioni economiche di ciascun componente dell’ex coppia, anche a molti anni di distanza dal divorzio, si può facilmente comprendere come i diritti e doveri nascenti dal matrimonio in Italia siano stati tuttora riequilibrati solo in parte.
Ad ogni modo, nel nuovo corso attuale, per riconoscere l’assegno di divorzio la funzione assistenziale dello stesso non deve ricorrere necessariamente, e nemmeno in via prioritaria rispetto a quella perequativa, come si era inizialmente ritenuto dopo la sentenza pilota del 2017. Al contrario, secondo le Sezioni Unite, le due funzioni devono essere valutate complessivamente.
La funzione assistenziale continua a rispondere alla concezione tradizionale del matrimonio, e alla preoccupazione di evitare che il coniuge divorziato si possa trovare in condizioni di abbandono o comunque di forte minorità economica. Si tratta del noto principio della solidarietà post-matrimoniale, che l’evoluzione giurisprudenziale sulla materia, come si è visto, ha ridefinito ma non certo eliminato.
Le Sezioni Unite, con la soprannominata sentenza n. 18287 del 2018, hanno infatti stabilito che l’esigenza assistenziale non sia necessaria per far sorgere il diritto all’assegno, e che occorra invece valutare complessivamente la situazione concreta, per vedere se il coniuge divorziato, pur disponendo di mezzi economici per affrontare la nuova situazione, abbia diritto a essere ricompensato per l’apporto dato nel tempo alla pregressa vita matrimoniale, sacrificando il nome della famiglia le proprie autonome potenzialità reddituali. Questa è, in concreto, la funzione perequativa e compensativa che l’assegno di divorzio deve soddisfare.
È nato così nella giurisprudenza di Cassazione il cosiddetto principio di autoresponsabilità, per cui, nelle mutate condizioni sociali e culturali del nostro tempo, alcuno dei due coniugi deve poter contare sul matrimonio per esonerarsi dal dover provvedere a se stesso/a per il resto della vita, anche nel caso non più infrequente di un futuro scioglimento del legame nuziale.
Inevitabilmente, a seguito della definizione di questi nuovi criteri è nato il problema che subito è stato definito della “difficile integrazione” tra la solidarietà post-matrimoniale e il principio di autoresponsabilità. Fin dalle prime sentenze del nuovo corso, per stabilire la ricorrenza della funzione compensativa e perequativa, al coniuge richiedente l’assegno divorzile è stato imposto di dimostrare di essere dotato di titolo di studio o comunque di autonome capacità professionali, e di avere coscientemente deciso di sacrificare le stesse per dedicarsi alla cura della famiglia o dei figli. La tendenza ad applicare presunzioni in questo campo è sempre esistita, ma tanta parte delle sentenze di merito hanno finora richiesto, per il riconoscimento dell’assegno in funzione perequativo-compensativa, che fosse fornito almeno un principio di prova sull’esistenza di dette potenzialità. Così, ancora, la citata sentenza del 2023 n. 35434.
Tant’è che finora si è anche cercato di arginare il riconoscimento dell’assegno di divorzio nel caso dei cosiddetti matrimoni-lampo, di durata estremamente breve. Da ultimo, l’Ordinanza di Cass. 5 agosto 2024, n.21955, ha confermato che, per il riconoscimento dell’assegno in esame, debba essere sempre verificata la pregressa instaurazione di un’autentica comunione di vita tra i coniugi. Laddove la stessa non si sia mai in concreto attuata, ovvero ci sia stata una convivenza troppo saltuaria, allora il diritto all’assegno può essere negato anche in presenza di un’esigenza assistenziale. In questi casi, a maggior ragione, il coniuge non può nemmeno vantare la funzione perequativa e compensativa dell’assegno.
Ora, va osservato che la natura dell’assegno in esame, per come è stata configurata dalla nostra legge sul divorzio, si concilia molto male con la suddetta funzione perequativa e compensativa. Infatti, è difficile valutare, oltretutto necessariamente in via equitativa, l’importo di una compensazione – o anche di una somma data in perequazione – rispetto a un assegno periodico per il quale non è prefissato un termine finale, e che nei fatti potrebbe anche durare più a lungo di quanto sia durato il matrimonio.
Ma a parte questo, è evidente che se prendesse piede il criterio demagogico di “giustizia distributiva” definito dall’ordinanza citata all’inizio, per cui il divario economico tra i coniugi può essere di per sé prova presuntiva del diritto all’assegno, finirebbe per essere superata l’idea stessa della compensazione, e si tornerebbe ad ancorare il quantum dell’assegno di divorzio al tenore di vita goduto dalla coppia durante la vita matrimoniale, così come all’antica concezione del matrimonio come rendita di posizione.
Nella prassi, è già frequente che le sentenze di merito tendano a quantificare l’assegno di divorzio sulla base del reddito annuo del coniuge più abbiente. L’assenza di parametri rigidi, in nome del principio per cui in materia familiare il giudice deve poter liberamente decidere caso per caso, fa sì che la valutazione equitativa tenda a essere tanto più generosa verso l’ex coniuge avente diritto quanto più la controparte onerata dell’assegno può contare su un buon reddito. Con buona pace del superamento del criterio del tenore di vita.
Vista la discrezionalità di cui gode il giudice, l’ancoramento dell’assegno al reddito dell’onerato avviene infatti in maniera piuttosto automatica, anche se di fatto non prevedibile nell’importo. Il tutto senza una rigorosa verifica dei parametri che, secondo la Suprema Corte, dovrebbero fondare il cosiddetto principio di autoresponsabilità.
Viene dunque da pensare a quanto sostenuto dal professor Francesco Gazzoni – e male gliene è incolto, viste le recenti polemiche – nell’introduzione del suo famoso Manuale di Diritto Privato, riguardo alla stabilità psicologica con i quali i giudici motivano le decisioni. Ciò fermo restando che, come lo stesso battagliero professore ha ribadito, è un dato di fatto che nei Tribunali le sezioni che si dedicano al diritto di famiglia siano composte in gran parte da donne. Questo particolare in un mondo perfetto non dovrebbe rilevare, se non fosse che, come sostenuto da Paolo Cendon, richiamato dallo stesso Gazzoni a fronte delle polemiche, il contenuto di ogni sentenza in questo campo dipende dal personaggio storico della vicenda familiare con cui l’estensore si è di fatto identificato, “perché il giudice, motivando, finisce per raccontare la propria storia: per dirci e per svelare anche a se stesso, quali siano in realtà i suoi desideri, quali i suoi segreti e i suoi peccati".
Pertanto, per restituire un minimo di prevedibilità e di certezza alle decisioni riguardo all’assegno divorzile, esattamente come a quelle riguardanti l’affidamento e il collocamento dei figli presso l’uno e l’altro genitore, l’unica via maestra sarebbe quella di stabilire degli standard, dai quali il giudice si possa discostare soltanto motivando la sua decisione. Ad esempio, si potrebbe ancorare la quantificazione dell’assegno di divorzio in funzione assistenziale a parametri oggettivi basati sull’importo della pensione sociale, gli stessi che già si usano per determinare il minimo vitale non pignorabile. Allo stesso tempo, si potrebbero stabilire per legge delle tabelle ministeriali basate sugli anni di matrimonio e sul livello reddituale comparato dei coniugi, dalle quali il giudice si possa discostare solo fornendo adeguata motivazione.
Ma questo è ancora un libro dei sogni. Infatti, la definizione degli standard farebbe venire meno la discrezionalità del giudice che, nel diritto di famiglia, consente la perpetuazione di pregiudizi e di consolidati orientamenti di principio. È per questo che, fino a oggi, le poche proposte di riforma sul tema si sono subito arenate, tra gli sbarramenti ideologici e gli alti lai delle associazioni di settore.
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