Lo scioglimento della comunione ereditaria su un immobile non è da considerarsi un atto mortis causa, ai fini dell’esclusione della sanzione della nullità, laddove si sia in presenza di abusi edilizi non sanati. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito questo principio di diritto, deviando dal precedente indirizzo giurisprudenziale che invece considerava lo scioglimento della comunione ereditaria come atto avente esclusiva efficacia dichiarativa, e non traslativa, in quanto conclusivo della vicenda successoria da considerarsi iniziata con la morte del precedente proprietario.
il pregresso orientamento si basava principalmente sulla retroattività dello scioglimento della comunione ereditaria, previsto dall'articolo 757 cod. civ.. Per tale motivo si sosteneva che questa forma di divisione dovesse considerarsi non interessata dalle rigide sanzioni di nullità previste dall'articolo 40, secondo comma, della Legge n. 47 del 2005, che per l'appunto preservano da esse gli atti mortis causa.
Ora le Sezioni Unite hanno preferito la soluzione opposta, estendendo la comminatoria di nullità anche a questi casi di divisione, e a tale fine hanno emanato la lunghissima sentenza n. 25021 del 7 ottobre 2019 (credits to Altalex per il testo in calce), che ricapitola una lunga serie di principi di diritto in materia di scioglimento della comunione su beni immobili.
Il caso di specie prendeva le mosse dalla richiesta di divisione della comunione ereditaria su un immobile, rispetto al quale il defunto aveva commesso una serie di abusi, sopraelevando il fabbricato nel periodo tra il 1970 e il 1976 in assenza di concessioni edilizie. La Corte d'Appello rimettente aveva deviato dall'indirizzo giurisprudenziale prevalente, qualificando lo scioglimento della comunione ereditaria come atto tra vivi, come tale da assoggettarsi alle disposizioni di cui agli articoli 17 e 40 della Legge n. 47/1985, che colpisce con la sanzione della nullità gli atti dai quali non risultano le cosiddette “menzioni urbanistiche”, cioè gli estremi della licenza ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria.
La Cassazione a Sezioni Unite, pertanto, per dirimere il contrasto ha cominciato a affrontare i problemi connessi all'interpretazione del citato art. 40, secondo comma, della Legge 47/1985 per il caso dello scioglimento della comunione. Questo articolo tuttora in vigore è infatti oggettivamente connesso all'articolo 17 della medesima legge, abrogato nel 2001 ma sostanzialmente riproposto con l'articolo 46 del d.p.r. n 380 del 2001.
La Suprema Corte a questo proposito ha giustamente notato che, allo stato delle norme vigenti, solo l’art. 46 parla espressamente di "scioglimento della comunione" tra gli atti colpiti da nullità, per il periodo successivo al 17 marzo 1985, quando era entrata in vigore la legge n. 47. Questo aveva fatto sì che precedenti sentenze di Cassazione fossero state indotte a ritenere che l'art. 40, secondo comma, non fosse invece applicabile agli atti di scioglimento della comunione, e quindi nessuna comminatoria di nullità sarebbe esistita - per qualsiasi scioglimento di comunione, anche ordinaria e non solo ereditaria - laddove si fosse trattato di abusi edilizi non sanati, realizzati prima dell'entrata in vigore della suddetta legge n. 47/1985.
Le Sezioni Unite su questo punto hanno corretto l'indirizzo giurisprudenziale prevalente, notando che, nel confronto tra i citati articoli 40 della legge 47/1985 e 46 del d.p.r. 380 del 2001, l'ambito applicativo risulta lo stesso, e quindi la nullità si deve ritenere sempre applicabile agli atti di scioglimento della comunione, escludendo soltanto - come espressamente previsto - gli atti mortis causa così come gli atti tra vivi a effetti meramente obbligatori.
Dopo aver risolto in questo senso la prima questione, le Sezioni Unite hanno affrontato il problema centrale dello scioglimento della comunione ereditaria, e cioè se esso sia da considerarsi come atto tra vivi, e quindi assoggettabile a nullità in caso di abusi edilizi, o al contrario come negozio a causa di morte. Come si è detto, la Corte di Cassazione a lungo aveva preferito quest'ultima interpretazione, considerando per l'appunto lo scioglimento della comunione ereditaria come atto conclusivo della vicenda successoria. La prevalente giurisprudenza riteneva che, assimilando lo scioglimento della comunione ordinaria quello della comunione ereditaria, si sarebbe arrivati a una irragionevole disparità di trattamento rispetto all'ipotesi in cui la divisione veniva operata direttamente dal testatore. In quest’ultimo caso, infatti, pacificamente non si può applicare la disciplina della nullità prevista in caso di abusi.
Tuttavia, le Sezioni Unite hanno deciso di superare questa impostazione, osservando che lo scioglimento della comunione ereditaria produce i suoi effetti indipendentemente dalla morte del de cuius, operando unicamente in forza del consenso tra i condividenti, se espresso nelle forme di legge. Solo per questo, dunque, si deve ritenere di essere in presenza di un atto tra vivi, assimilabile allo scioglimento della comunione ordinaria, trattandosi allo stesso modo di un contratto plurilaterale a effetto reale e funzione distributiva, con il quale i contraenti si ripartiscono il bene che era in comproprietà, in proporzione alle relative quote, facendo così cessare la comunione.
La disparità di trattamento rispetto a una divisione disposta per via testamentaria, secondo le Sezioni Unite, poteva al limite riguardare il profilo funzionale delle diverse quote tra i beni tra gli eredi, ma non colpiva la natura degli atti giuridici intrapresi. Quindi, se la divisione testamentaria è indubbiamente un negozio mortis causa, che ha la sua fonte nella volontà del testatore e nella sua morte, con conseguente apertura della successione, la divisione tra gli eredi invece non può che essere considerata come atto tra vivi, perché produce i suoi effetti indipendentemente dalla morte del de cuius.
La conseguenza è che, se il testatore può dividere tra i futuri eredi un edificio abusivo di cui è proprietario, disponendo per dopo la sua morte (cioè mortis causa), non è illogico che al contrario gli eredi una volta divenuti comproprietari siano impediti dal farlo mediante un contratto di divisione, perché a quel punto gli stessi sono semplicemente dei subentranti nella medesima posizione del defunto, che hanno acquistato il compendio immobiliare abusivo del medesimo stato di fatto e di diritto in cui il de cuius lo possedeva. Ma così come il de cuius non avrebbe potuto alienare né dividere tra vivi l'immobile - argomentano le Sezioni Unite -, è naturale che non possano farlo neanche gli eredi. La conseguenza è che un immobile in stato abusivo è destinato a rimanere in comunione fino a quando l’abuso non venga sanato o eliminato.
Partendo da questo principio giurisprudenziale, ne discendono implicazioni che la sentenza in esame della Suprema Corte ha analizzato punto per punto, stabilendo in primo luogo che alla divisione giudiziale dell'eredità possa essere applicato il medesimo regime previsto per la divisione convenzionale, e l’articolo 46 del d.p.r. n. 380/2001 (già art. 17 legge 47/1985) sia applicabile sia alle divisioni negoziali che a quelle giudiziali, essendo comune l'interesse pubblico del rispetto delle prescrizioni urbanistiche e edilizie, che devono essere osservate anche dal giudice.
Quindi, quando viene richiesto di dividere un immobile abusivo, se manca la dichiarazione sugli estremi della concessione edilizia o della sanatoria così come richiesti dalla legge, il giudice deve rifiutare la divisione stessa, perché la sua pronuncia non può realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che sarebbe consentito alle parti nell'ambito della loro autonomia negoziale.
Ma cosa succede, invece, qualora i coeredi vogliano escludere dalla divisione ereditaria gli immobili che sono gravati da questa nullità, e quindi non possono essere divisi finché non cessa la situazione di abuso? Dottrina e giurisprudenza hanno affermato finora il principio della universalità della divisione ereditaria, che di norma deve comprendere tutti i beni del patrimonio del de cuius. Tuttavia, è pacifico che si tratti di un principio non assoluto né inderogabile, che oltre a trovare eccezioni previste nella legge, nelle successioni può essere derogato per accordo unanime dei condividenti.
Più volte la Cassazione ha ammesso la legittimità di ipotesi di divisione parziale dei beni ereditari, sia per via contrattuale in caso di consenso di tutti i coeredi, sia per via giudiziale, quando taluno degli eredi chieda la divisione parziale senza che gli altri eccepiscano la richiesta di divisione dell'intero asse, per rispettare il principio di universalità. Vale a dire che, in caso di divisione parziale, sia consensuale che giudiziale (in mancanza di richieste di rispetto del suddetto principio), ciascun partecipante alla comunione riceverà una sorta di acconto sulla porzione dei beni che gli spetterà in sede di divisione definitiva.
Nel contempo, i beni non ancora divisi rimarranno in una comunione che può conservare la sua originaria natura di comunione successoria, con conseguente applicabilità dei principi della divisione ereditaria (compreso quello appena stabilito della indivisibilità in mancanza di sanatoria degli abusi). Se si tratta di fabbricato abusivo, e vi è concorde volontà di tutti i coeredi in tale senso, si può pertanto escludere tale bene dalla divisione giudiziale dell'eredità che in ogni caso non lo potrebbe riguardare.
Tuttavia, secondo la sentenza in esame, laddove uno dei coeredi faccia domanda di scioglimento parziale della comunione ereditaria, con l'eccettuazione di un compendio immobiliare abusivo, gli altri coeredi non possono opporsi. Infatti, sostengono le Sezioni Unite, quando tutti i beni sono giuridicamente divisibili il diritto di ciascun coerede di ottenere la divisione parziale va conciliato con quello degli altri eredi di ottenere la divisione dell'intero asse ereditario, in modo da evitare che il richiedente la divisione parziale possa paralizzare le legittime pretese altrui per mere ragioni di opportunità.
Ma nonostante questo, precisa la sentenza in esame, quando nell'asse ereditario c'è un immobile abusivo il discorso cambia. Infatti, la richiesta di eccettuazione dalla divisione giudiziale della comunione ereditaria del predetto immobile non risponde a una logica di convenienza, ma è motivata dai disposti di legge che vietano lo scioglimento della comunione di un immobile per il quale non si possa indicare nell'atto gli estremi del titolo di regolarità edilizia. Se dunque fosse possibile impedire la divisione ereditaria parziale in simili casi, si finirebbe per comprimere illogicamente il diritto di ogni coerede di ottenere lo scioglimento della comunione, conferendo a ciascun altro di impedirlo semplicemente chiedendo il rispetto del principio di universalità, che però in questo caso non potrebbe comunque essere giuridicamente rispettato per la presenza degli abusi.
Infine, per il caso di divisione di edificio abusivo nell'ambito di procedure espropriative o concorsuali, le Sezioni Unite hanno precisato che il quinto comma dell'art. 46 del d.p.r. 380/2001 e l'art. 40, comma 5 e 6, della Legge 47/1985 eccettuano espressamente dalla sanzione di nullità il caso in questione. Tale esclusione secondo la Corte è in linea con la ratio della generale comminatoria di nullità, e coerente con i principi generali dell'ordinamento. Quindi, è da confermarsi la deroga nel caso che lo scioglimento della comunione venga richiesto nell'ambito di una procedura espropriativa o concorsuale, sia che la comunione sia ordinaria che ereditaria.
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