Da "Il Timone" on line dell'11 gennaio 2024
Da diverso tempo, a intervalli regolari, i media ci raccontano di un certo ideogramma cinese, secondo il quale ogni crisi racchiuderebbe in sé un pericolo e un’opportunità. Pare che il primo a parlarne sia stato niente meno che John Fitzgerald Kennedy. La suggestiva immagine viene riproposta da analisti, sociologi e “motivatori” di vario tipo ogni volta che si attraversa una congiuntura economica negativa, o si verificano sul mercato dei rovesci finanziari. Tra l’altro, chi conosce il cinese ha più volte avvisato che si tratta di una traduzione errata, visto che l’ideogramma in questione, più che “opportunità”, significherebbe “momento cruciale”.
Tuttavia, è proprio partendo da qui che si può provare a interpretare ciò che sta attraversando la Chiesa, riguardo alla sua dottrina sul matrimonio. Difficile avere dubbi sul fatto che si sia in presenza di una crisi, così come di un “momento cruciale” al quale sembrano averci portato gli sviluppi di questo pontificato. Solo pochi anni – anzi mesi – fa, ben pochi avrebbero pensato che si sarebbe potuti arrivare a questo punto. Ad ogni modo, se osserviamo la situazione dal punto di vista di un avvocato familiarista, che ben conosce le gravissime conseguenze della crisi del matrimonio nel mondo occidentale, ecco che possiamo tuttora pensare che, alla base di tutto questo, ci sia anche un’opportunità che stenta ad essere colta.
Da Amoris Laetitia fino alla recentissima, e sconcertante, Fiducia Supplicans, sembra che la Chiesa sia stata animata soprattutto dal desiderio di salvare il salvabile. Il mondo secolarizzato non ha più alcun rispetto del matrimonio, e tanto meno dell’idea della sua indissolubilità. Quindi, non è azzardato pensare che i pastori più progressisti, nelle loro intenzioni, stiano facendo il possibile per recuperare alla grazia divina il maggior numero di persone, che altrimenti ne rimarrebbero escluse per tutta la vita.
Assai poco giustificabili appaiono, alla luce della tradizione ma anche del buon senso, le aperture nei confronti delle unioni omosessuali. Eppure, se ci limitiamo a parlare del matrimonio e delle convivenze tra uomini e donne, quel che sembra mancare nei tentativi di riforma è quel concetto che, per secoli, è stato alla base dell’intero edificio della fede cristiana. Stiamo parlando del Logos. La logica, il discorso, il ragionamento. Insomma, quello che consente all’intelligenza umana di comprendere il mondo e di ordinarne i fenomeni in una maniera universalmente accessibile.
A partire da duemila anni fa, il Cristianesimo ha saputo conquistare il mondo occidentale, senza rimanere confinato tra le sette dell’ebraismo, grazie alla capacità di integrare il proprio annuncio di salvezza con la filosofia greca. A questo dobbiamo l’immagine del prologo del Vangelo di Giovanni, che contiene in sé tutto il paradigma della teologia cattolica: il Verbo – cioè il Logos – si è fatto carne. E come tale si è posto quale autore e sommo garante della ragione umana.
Il cristianesimo ha fatto sì che il matrimonio, fondamento naturale di tutto l’ordine sociale, si rivestisse di una nuova razionalità, che storicamente ha portato la dignità della donna a un livello mai raggiunto prima. Il Cristo ci ha rivelato che, per progetto divino, il matrimonio è il segno originario di una unità indissolubile tra i due sessi. Quella che, in precedenza, era stata già intuita dal Simposio di Platone, ma non aveva mai prodotto rivoluzionarie conseguenze sociali e giuridiche. Dunque, il nuovo ordine cristiano, per conservare sé stesso nella fedeltà a questo progetto, nel corso dei secoli ha dovuto giustificare e preservare, prima di tutto, il principio dell’indissolubilità dell’unione coniugale.
È stato l’avvento della modernità a mandare in crisi questa concezione. Nel XVI secolo, mettendo in discussione l’indissolubilità del matrimonio, i riformatori protestanti hanno voluto colpire alla radice tutto il potere che – in nome del Logos – la Chiesa esercitava sulla società. Come sappiamo fin dai tempi della scuola, lo scisma anglicano avvenne per questioni di nullità matrimoniale. San Tommaso Moro ci rimise la sua testa, per aver voluto opporre a Enrico VIII non tanto le ragioni della fede, quanto quelle del Logos, riguardo alla questione della validità delle nozze regali. Tutto questo mentre Martin Lutero, nell’Europa continentale, avendo negato la natura metafisica del sacramento dell’Eucarestia, di conseguenza aveva contestato la logica che stava alla base del matrimonio canonico.
Se l’amore del Cristo per la Chiesa, sua sposa mistica, non era più da considerarsi racchiuso nel sacramento del sacrificio eucaristico, allora per i protestanti non c’era nemmeno più alcuna ragione per considerare il matrimonio come ontologicamente indissolubile. La Chiesa Cattolica, fedele alla sua tradizione di custode del Logos, fin dall’alto medioevo era stata l’unica istituzione che si era assunta il compito di difendere e di disciplinare il matrimonio, anche riguardo ai suoi aspetti giuridici. Tant’è che in tutta Europa il cosiddetto matrimonio civile da celebrarsi nei municipi, in concorrenza rispetto a quello canonico, è stato introdotto soltanto dalle codificazioni napoleoniche del primo Ottocento.
In Italia, i Savoia resisterono all’introduzione di questa novità fino al 1865, quando il nuovo Codice civile dello stato unitario introdusse questa innovazione, che risultò sconvolgente per i cattolici. Le difficoltà nacquero dal basso, perché la popolazione proprio non capiva perché i fidanzati dovessero sposarsi anche davanti al Sindaco, e non solo nella loro parrocchia. La nuova pretesa dello Stato produsse il rischio di sovrapposizione delle due giurisdizioni. Per questo, in Italia non fu introdotto l’obbligo “alla francese” di celebrare il matrimonio civile prima di quello religioso.
Inoltre, il nuovo Codice civile continuò a non prevedere il divorzio, e i cattolici conservarono fino al Concordato del 1929 la possibilità di continuare a sposarsi nella rigorosa separazione degli ordinamenti canonico e civile, eventualmente soltanto davanti al parroco. Negli ultimi sessant’anni, a partire dalla rivoluzione sessuale fino ad arrivare ad Amoris Laetitia, la Chiesa Cattolica è rimasta l’unica autorità giuridica, non solo morale, che si è preoccupata di tenere fermo il valore del matrimonio indissolubile.
Tuttavia, non si può negare che, di fronte al dilagare della dissoluzione della famiglia naturale, in qualche modo si è reso necessario offrire ai credenti una risposta nuova, ma allo stesso tempo valida dal punto di vista dottrinale e del diritto canonico. Fino agli anni ‘80, nel nostro Paese i matrimoni celebrati in Chiesa superavano i quattro quinti del totale. Oggi, non raggiungono nemmeno la metà. È altresì evidente che le persone tendenzialmente non si sposano più, e preferiscono le convivenze precarie e informali.
Quella che agli inizi del Duemila sembrava ancora una nuova tendenza sociale, per cui si parlava della necessità di regolamentare le cosiddette “famiglie di fatto”, oggi è diventata la normalità. È il nuovo paradigma, per cui non è azzardato pensare che anche l’Italia sia di fatto entrata in un’era post-matrimoniale. Questa crisi, innegabilmente, è andata di pari passo con quella della natalità. Solo chi è offuscato da pregiudizi ideologici, tra i sociologi e gli operatori del settore, può non accorgersi di quanto la stabilità di un progetto di vita fondato sul matrimonio sarebbe tuttora fondamentale per le coppie che vogliono mettere al mondo dei figli.
La tradizione cattolica occidentale è tale per cui i sacramenti – quindi anche il matrimonio e l’Eucarestia – necessitano di una disciplina non soltanto religiosa e morale, ma anche giuridica. Occorre rispecchiare l’idea della loro intrinseca razionalità, quale conseguenza del Logos che si è fatto carne. Così, fino a qualche anno fa, la Chiesa ha cercato di affrontare la situazione offrendo al coniuge divorziato, ma bisognoso del conforto della fede, soluzioni che consentissero di recuperare l’accesso ai sacramenti senza infrangere la regola giuridica dell’indissolubilità.
Il punto nodale finora è stato quello del vizio del consenso, in virtù del quale si può dichiarare nullo un matrimonio fin dal momento della sua celebrazione. A tale fine, la giurisprudenza canonica si è arricchita di interpretazioni innovative, in base alle quali il consenso prestato al momento delle nozze ha iniziato a essere ritenuto invalido in virtù di riserve mentali, ovvero dell’influenza di nevrosi o di disturbi della personalità. Purtroppo, l’accertamento di questi fattori è di per sé arduo, e quindi nei casi concreti ha finito per risultare piuttosto arbitrario.
Per favorire le ragioni della nullità, nei tribunali ecclesiastici si è verificata una casistica a volte davvero imbarazzante agli occhi di un giurista esperto, per la sua aleatorietà se non proprio ipocrisia. Lo stesso vale per la prassi dell’ammissione di testimonianze, degli interessati o di terzi, sulla presenza di riserve mentali al momento delle nozze. È evidente che questo pontificato abbia cercato di cambiare rotta riguardo a questa concezione giuridica della validità del matrimonio. Ancor prima di Amoris Laetitia, lo si era compreso dalla riforma dei Tribunali ecclesiastici voluta da Papa Francesco, nel segno della semplificazione.
Benedetto XVI, sulla scia del suo predecessore, aveva cercato di fare salvo il principio della indissolubilità, proponendo l’impegno di continenza perpetua ai divorziati risposati che chiedevano di essere riammessi all’eucarestia. Papa Francesco, invece, ha lasciato intendere che si potesse piuttosto lasciar cadere la questione giuridica dell’indissolubilità mediante la prassi pastorale. È la stessa linea di pensiero che sembra animare la recentissima dichiarazione Fiducia Supplicans, che tanto sta sconcertando i fedeli che vorrebbero fare salva la rassicurante tradizione del Logos.
E dire che, agli occhi di un giurista che non pretende di fare teologia, ma conosce bene la realtà della crisi del matrimonio, la prassi è molto diversa da come la si vorrebbe affrontare. In realtà, quello che porta tante coppie di battezzati ad andare incontro all’esperienza del divorzio, non è certo l’ignoranza su cosa sia il matrimonio. Piuttosto, ciò che oggigiorno porta le persone comuni a non sposarsi nemmeno è la consapevolezza di quanto sia facile incappare in un divorzio.
Aveva visto giusto, a suo tempo, il beato Antonio Rosmini. Questo importante filosofo, nel 1852, polemizzando contro la ventilata introduzione del matrimonio civile “napoleonico” nel Lombardo-Veneto, scrisse che togliere al matrimonio il suo riferimento religioso “avrebbe significato dargli un terreno fluido e insicuro”, e che in questo modo “l’istituto nuziale avrebbe finito per ridursi a una realtà povera, labile e in balia delle passioni del momento”. “Di questo passo” – scrisse testualmente Rosmini – “si sarebbe arrivati a un punto in cui le coppie si sarebbero chieste: ma che ragione c’è per sposarsi, non possiamo convivere e basta?”.
Fa impressione considerare che queste parole sono state scritte ancor prima dell’unità d’Italia, quando il divorzio e il libero amore erano concetti assolutamente impensabili per la totalità della popolazione. Ma proprio per questo, la Chiesa cattolica di oggi potrebbe affrontare il problema della crisi del matrimonio, nelle nostre società secolarizzate, senza rinunciare alla ricchezza della propria tradizione. Non è detto che, per fare questo, debba venir meno alla responsabilità di predicare concetti coerenti con le esigenze del Logos. In fondo, la nostra società si occidentale si trova a vivere da poco più di cinquant’anni una situazione che, per quanto senza precedenti, è relativamente simile a quello che si verificò ai tempi della decadenza dell’Impero Romano.
Anche allora, la grande novità cristiana dell’idea del matrimonio indissolubile si era venuta a scontrare con la situazione del tempo, e con la mentalità corrente di tante coppie. Molte di esse, pur volendo addivenire alla fede, si trovavano in situazioni matrimoniali che anche oggi definiremmo a dir poco irregolari. Non era infrequente che a chiedere il battesimo fossero uomini poligami, o comunque persone già interessate da precedenti divorzi. Non mancavano nemmeno i concubinati che avevano portato alla nascita di figli. Così come era frequente la situazione, presa in considerazione da San Paolo, dei singoli che si volevano convertire al cristianesimo nonostante l’opposizione del coniuge.
Di fronte a questa situazione complessa, l’apostolo delle genti si inventò quello che nella tradizione del diritto canonico tuttora prende il nome di privilegio paolino, riguardante la possibilità di sciogliere un precedente valido matrimonio “in favore della fede”. Esiste inoltre la tradizione delle chiese ortodosse, che non avendo voluto entrare in contrapposizione con le autorità civili, fin dai tempi di Giustiniano ha elaborato una profonda giustificazione del divorzio, inteso come incapacità di essere stati all’altezza del gravoso comandamento che lo stesso Gesù Cristo aveva riservato agli orecchi “di chi poteva intendere”.
Senza entrare nel merito delle questioni teologiche, va detto che agli occhi di un giurista la soluzione “economica” degli ortodossi appare decisamente meno ipocrita di quella che si è ampiamente diffusa nei nostri tribunali ecclesiastici. Per non parlare della novità delle benedizioni a tempo e informali, che al momento si vorrebbero riservare alle coppie irregolari, comprese quelle omosessuali.
Si fa notare tutto questo per dire che, di fronte ad una crisi epocale, la grande tradizione della Chiesa potrebbe molto meglio trovare soluzioni che salvino sia il criterio giuridico dell’indissolubilità, sia l’esigenza di far fronte a una diversa situazione, nell’interesse della salvezza delle anime. Tutto questo senza contraddire la coerenza interna del Logos, che contraddistingue tutto l’edificio della fede cattolica. Al giorno d’oggi, sussistono innumerevoli casi di fedeli cristiani che hanno visto i loro progetti di vita distrutti da un divorzio che non volevano, e del quale non hanno nemmeno capito i motivi.
Se si tratta di uomini, molti di essi si sono ritrovati – spesso ancor prima dei quarant’anni – senza più né casa né famiglia, in enormi difficoltà economiche, dissociati rispetto a quello che era stata la loro vita precedente, e impossibilitati a vedere liberamente i propri figli. Ad essi, la Chiesa non ha finora prospettato altra soluzione che non offrire le proprie sofferenze per testimoniare la santità del matrimonio, accettando di rimanere per il resto della vita da soli. Continenti e fedeli a chi li ha traditi e umiliati, perché il Cristo è rimasto fedele alla sua sposa.
Qualora invece questi battezzati si vogliano rifare una vita, auspicabilmente con una persona che li ami davvero, essi devono scegliere tra la grazia e la felicità familiare. Non si venga a dire che la Chiesa propone questo per il loro vero bene, come si potrebbe fare per i sodomiti o per i comuni adulteri. Nemmeno si dica che in questi casi si punti al bene dei figli o del coniuge fedifrago. In realtà, la sofferenza di questi umiliati e offesi serve unicamente a testimoniare la santità del sacramento. Così, nella prassi, quest’ultimo per loro diventa, più che fonte di vita, giudizio di condanna.
In base a queste considerazioni, si potrebbe anche capire quello che i pastori più progressisti stanno cercando di fare, se solo non fosse tutto così pasticciato. Per giustificare sul piano teologico una riforma della disciplina matrimoniale, da Amoris Laetitia in poi sarebbe bastato andare incontro alla prassi penitenziale degli ortodossi. Oppure cercare una risposta in continuità con la tradizione e il Logos. Invece, si è creata solo confusione e ambiguità.
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