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  • Immagine del redattoreStudio Legale Fiorin

La destra di governo e la questione familiare: tra conflitto tra sessi e femminismo della differenza

Sul nuovo numero della rivistapolitica.eu, è reperibile il testo in pdf del contributo in oggetto, scaricabile al link:


Si riporta qui di seguito il testo:


La nuova destra di governo e la questione familiare: tra crisi del cattolicesimo politico, conflitto tra i sessi e femminismo della differenza di Massimiliano Fiorin «Non siamo dei marziani». Così ha commentato Giorgia Meloni, parlando di sé stessa e del suo governo, dopo la prima visita da Presidente del Consiglio alle istituzioni comunitarie di Bruxelles, all’inizio di novembre del 2022. La giovane primo ministro ha reso così evidente, con una sorta di excusatio non petita, l’intenzione di accreditare la stagione politica aperta dal nuovo esecutivo in modo conciliante, rispetto a come le posizioni di questo erano state dipinte, all’estero e non solo, nel corso dell’ultima campagna elettorale. Le prime mosse della Meloni, basti pensare al G20 di Bali o alla presentazione di una manovra finanziaria cauta e attenta nei confronti dell’Unione Europea, sono state tutte in questo senso. Ciò a prescindere dal fatto che la stampa internazionale – soprattutto quella di derivazione anglosassone – tuttora dipingano lei e il suo partito come espressione di una impresentabile far-right. Tuttavia, nonostante i tentativi di rassicurare l’Europa e la Nato,ci sono temi sui quali la diversità culturale e politica della leader di Fratelli d’Italia, non potrà essere più di tanto messa in ombra. È evidente il contrasto rispetto un certo assetto transnazionale di principi e valori che sembra irrinunciabile. Tra questi ultimi figurano i cosiddetti «diritti civili», e più in generale la concezione della famiglia e del suo ruolo nella società attuale. Mettere troppo tra parentesi certi argomenti, per farsi accettare negli ambienti che contano, alla lunga provocherebbe al partito di Giorgia Meloni la perdita della propria specificità, e soprattutto di quella coerenza ideale che finora è stata il segreto del suo successo elettorale. In ogni caso, l’avvento del governo di destra-centro, a seguito delle elezioni del 25 settembre 2022, consente di fare il punto della situazione relativa al rapporto tra mondo cattolico, destra e questione familiare. È indubbio che il nuovo esecutivo abbia mandato subito un preciso segnale riguardo al proprio modo di vedere il problema demografico che affligge l’Italia, C’è stato il cambio di denominazione di un ministero senza portafoglio che è ritornato a essere «per la natalità e la famiglia», mentre in precedenza – con una scelta di opposta natura ideologica – era stato intitolato a «pari opportunità e famiglia», in linea con gli orientamenti progressisti del governo Conte II. Tra l’altro, curiosamente, nell’esecutivo ancora precedente, quando a sostenere il primo governo Conte c’era anche il partito di Salvini, il medesimo ministero, inizialmente occupato dall’attuale presidente della Camera Lorenzo Fontana, si chiamava «per la famiglia e le disabilità». Poi, non appena è passato ad Alessandra Locatelli, nel luglio 2019, i termini della denominazione si sono invertiti: «per la disabilità e la famiglia». Le scelte terminologiche riflettono gli orientamenti politici, o quanto meno le intenzioni: del resto, ormai da diversi anni le amministrazioni locali più orientate a sinistra tendevano a escludere la famiglia dalla denominazione degli assessorati, preferendo intitolarli – l’esempio di Bologna è tra i più significativi – all’affermazione delle politiche «di genere» e ai diritti delle coppie omosessuali. Dunque, l’intento della nuova maggioranza governativa parrebbe quello di sostituire la questione sociologica dell’affermazione della parità tra i sessi e dei diritti gay con il tema delle politiche per la famiglia e per la natalità. Esse stanno a cuore soprattutto a un’area del mondo cattolico che anche in Italia viene definita comunemente «pro-life», per indicare le sue posizioni sul problema dell’aborto, a imitazione di analoghi raggruppamenti statunitensi. Questo benché, storicamente, negli Usa gli antiabortisti abbiano un peso elettorale ben più marcato ma anche posizioni assai più estreme, tra l’altro riconducibili più alle confessioni evangeliche protestanti che non al cattolicesimo. Soprattutto, pesa il fatto che a dirigere il sopra menzionato organismo – sotto la nuova denominazione di «Ministero per la famiglia, la natalità e le pari opportunità» – sia stata chiamata Eugenia Roccella. Il nuovo ministro, infatti, esprime da tempo posizioni che non possono essere ricondotte tout court a quelle dei cattolici pro-life, e non solo per i suoi trascorsi radicali, né per il fatto che da tempo – analogamente alla leader di Fratelli d’Italia – abbia dichiarato di non volere che venga riveduta la legge 194 sull’interruzione di gravidanza. Più in generale, infatti, ha una certa importanza l’appartenenza di fondo di quest’ultima all’area politico-culturale del cosiddetto «femminismo della differenza». Si tratta di una posizione a sé stante, tant’è che rispetto ai classici pro-life cattolici, nella scorsa legislatura, sono emersi dei contrasti interni che hanno interessato direttamente anche Eugenia Roccella. Basta ricordare come, nel periodo dei governi gialloverdi e poi giallorossi, il campione riconosciuto (da parte della stampa e degli avversari politici, molto meno da parte della gerarchia cattolica) delle posizioni in tema di famiglia ispirate dai pro-life antiabortisti sia stato il senatore Simone Pillon, con il quale il nuovo ministro per la famiglia ha avuto scambi di vedute molto critici. Pillon è leghista, ed era stato ricandidato dal partito di Salvini alle politiche del 2022 in posizione scarsamente eleggibile, e quindi non eletto. Si era segnalato nella trascorsa legislatura per avere proposto e difeso un disegno di legge che puntava a riformare il diritto di famiglia con l’introduzione del cosiddetto «affido materialmente condiviso» per i figli dei genitori separati. La battaglia parlamentare che ne era seguita aveva fatto registrare una violenta levata di scudi da parte delle femministe, non solo quelle di sinistra. Esse avevano accusato Pillon di voler nientemeno che «restaurare il patriarcato», e con esse è stato impossibile qualsiasi tentativo di mediazione. All’epoca, tuttavia, il leghista non ebbe neanche l’appoggio della gerarchia ecclesiastica e nemmeno quello della Roccella, che anzi intervenne in modo critico verso la sua proposta di riforma (1), in nome di una diversa concezione dei ruoli genitoriali. Anche in altre occasioni, peraltro, il nuovo ministro della famiglia ha avuto modo di criticare Pillon, proprio per il fatto di essere, a suo dire, più espressione di una diversa area pro-life che non della Lega. Nel merito, si può osservare che le posizioni della Roccella dell’epoca sembravano evidenziare lo stesso ritardo culturale della sinistra femminista, riguardo al tema della famiglia in crisi, nonostante l’intento di differenziarsi da queste. Infatti, il tanto esecrato disegno di legge Pillon non veniva dal medioevo ma ricalcava pedissequamente una modernissima raccomandazione del Consiglio d’Europa sulla shared custody. In molti paesi occidentali questa non è solo un’opzione già tradotta in legge, ma soprattutto è raccomandata dalle stesse femministe, che in essa non vedono di certo il ritorno del «patriarcato», bensì un utile strumento affinché le donne del nostro tempo possano condividere i compiti di cura nei confronti dei figli con l’altro genitore, in modo da non essere troppo penalizzate sul lavoro. La Roccella si era detta scettica sul disegno di legge Pillon, come del resto molte associazioni familiari di area cattolica, proprio perché valorizzare il ruolo paterno nelle coppie genitoriali separate non le appariva rispettoso, in un’ottica per l’appunto di «femminismo della differenza», delle specificità materne. In altri termini, la suddetta sembrava sostenere che anche dopo la crisi della coppia genitoriale dovesse essere mantenuto il modello della famiglia tradizionale, fondata sul primato del materno rispetto ai compiti di accudimento e cura di figli, mentre il padre dovesse limitarsi al ruolo di educatore e provider: una visione che non è qui il caso di indagare, ma che non tiene conto delle dinamiche reali che si scatenano in occasione delle crisi familiari. In questa sede ci limiteremo a osservare che la psicologia analitica insiste molto sul concetto, attribuito in origine a Freud, per cui «soltanto quando si studia il patologico si impara a conoscere il normale». Questo appare vero anche riguardo ai conflitti familiari e alla loro regolamentazione giuridica: conoscere da vicino e senza preconcetti le dinamiche delle crisi familiari rappresenta la chiave per comprendere la «normalità» della famiglia. Tuttavia, non è mai vero il contrario: applicare pedissequamente il modello della famiglia naturale nella regolamentazione della crisi, quando i genitori smettono di convivere, può portare a distorsioni e guai seri per tutti. Ma la sede per dibatterne non è questa. Piuttosto, va osservato che in occasione del dibattito sul disegnodi legge Pillon,come più in generale, è risultato evidente come la questione familiare sottintesa a certe tematiche, oltre a dividere gli stessi cattolici, sembra non interessare più alla gerarchia ecclesiastica. Essa ormai ha abbandonato completamente le posizioni del «ruinismo», arrivando persino a modificare radicalmente l’impostazione della Pontificia Accademia per la Vita. Quest’ultima, fortemente voluta da papa Giovanni Paolo II, era invece stata la roccaforte culturale di quella stagione caratterizzata dal primato dei temi che Benedetto XVI ebbe a definire come «valori non negoziabili» dei cattolici, cioè famiglia, tutela della vita fin dal concepimento e libertà di educazione (2). Joseph Ratzinger, quando era ancora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in una Nota dottrinale, che nel 2002 introdusse per la prima volta la definizione di «valori non negoziabili» di cui sopra, aveva imposto coordinate piuttosto chiare ed esigenti ai cattolici impegnati in politica. Con essa era arrivato a obbligarli «a dissentire da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono negoziabili». Nel prosieguo della Nota, e in particolare nel paragrafo 4, si era proceduto a una esemplificazione dei suddetti «principi non negoziabili», non prima di aver ribadito che «la partecipazione diretta dei cittadini alle scelte politiche si rende possibile solo nella misura in cui trova alla sua base una retta concezione della persona». Per il cattolico in politica, dunque, secondo la dottrina della Chiesa dovrebbero sussistere parametri etici fondamentali e irrinunciabili, nelle quali è in gioco l’essenza dell’ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona. I punti rispetto ai quali il politico che vuol dirsi cattolico non sarebbe mai autorizzato a prestare dissenso sarebbero quelli che emergono nelle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia, quelli che concernono la tutela e la promozione della famiglia, fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso, protetta nella sua unità e stabilità e alla quale non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza; quelli che garantiscono la libertà di educazione ai genitori per i propri figli». È però innegabile che nel corso di questi ultimi vent’anni (la Nota ratzingeriana appena citata è del 24 novembre 2002) la posizione della gerarchia ecclesiastica, pur essendo formalmente rimasta invariata, è sostanzialmente uscita dall’agenda dei politici di ispirazione cattolica. Il pontificato di Papa Francesco ha segnato un’accentuazione del carattere pastorale e sociale della presenza della Chiesa nel mondo, fino al punto di abbandonare – o quasi – l’insistenza sui temi etici. Questo ha avuto dei contraccolpi sulla politica italiana: se le elezioni del 2018 e ancora quelle del 2022 hanno visto la definitiva scomparsa dal parlamento dei gruppi che si richiamavano esplicitamente all’esperienza della Democrazia Cristiana, o comunque che rivendicavano l’ispirazione cattolica, nello stesso periodo di tempo i cattolici pro-life si sono orientati verso i maggiori partiti della nuova destra di ispirazione sovranista e populista. L’esperienza dei Family Day della fine del 2015 e del 2016 ha rappresentato un punto di svolta. Essi erano stati organizzati per contrastare, con una battaglia infine perduta, l’introduzione in Italia delle unioni civili tra coppie omosessuali. Il tentativo di dare una rappresentanza politica autonoma al popolo dei valori non negoziabili, primo tra tutti quello della famiglia e del contrasto all’aborto, è chiaramente fallito. Nello stesso tempo, tuttavia, è sorto un relativo dualismo nella visione generale della famiglia nella società, e del contrasto all’aborto. Di questo, il senatore uscente Pillon e il ministro Roccella, come si è sopra accennato, sono esponenti emblematici. Ricostruiamo alcune tappe a loro modo storiche, per comprendere meglio questo processo. Tra il 29 e il 31 marzo del 2019 si era tenuto a Verona il Congresso Mondiale delle Famiglie (World Congress of Families, WCF), presentato dagli organizzatori come «evento pubblico internazionale di grande portata con l’obiettivo di unire e far collaborare leader, organizzazioni e famiglie per affermare, celebrare e difendere la famiglia naturale come sola unità stabile e fondamentale della società». Gli organizzatori erano tra i promotori dei Family Day di tre anni prima. L’evento aveva registrato una notevole attenzione polemica da parte dei media e degli esponenti di sinistra, a riprova di come i temi non negoziabili siano ancora oggi percepiti come una minaccia politica seria, rispetto all’affermazione dell’agenda politica progressista a livello europeo. Per contrasto, si può dire che quel convegno abbia chiarito alla perfezione gli orientamenti politici della nuova destra di ispirazione cattolica, a livello non solo nazionale ma europeo. Basti notare come gli organizzatori, dietro al motto per cui «la famiglia è l’istituzione sociale originaria che getta le fondamenta di una società moralmente responsabile» hanno ricordato enfaticamente che l’evento era idealmente la prosecuzione di quello del 2017, tenutosi a Budapest, con la partecipazione e direzione del primo ministro Viktor Orban e il supporto diretto del governo ungherese.

Le tematiche affrontate, secondo l’elencazione stessa dei promotori, si possono definire come l’agenda dei conservatori europei che guardano verso Est: «la bellezza del matrimonio, i diritti dei bambini, l’ecologia umana integrale (richiamata più volte dal magistero di Papa Francesco), la crescita e la crisi demografica, la salute e dignità della donna, la tutela giuridica della vita e della famiglia, le politiche aziendali per la famiglia e la natalità». Emblematiche sono state le partecipazioni a detto Congresso delle Famiglie del «ministro della famiglia e della disabilità» dell’epoca, cioè l’attuale presidente della Camera dei deputati Lorenzo Fontana, e soprattutto le relazioni conclusive di Matteo Salvini, allora vicepremier del governo gialloverde, e di Giorgia Meloni, che da lì a un anno sarebbe stata eletta presidente del gruppo parlamentare europeo dei Conservatori e Riformisti, e si era presentata in veste di presidente di Fratelli d’Italia. Curiosamente, i due capipartito appena citati, nei loro interventi con i quali hanno espresso piena adesione di principio ai principi di Dio Patria e Famiglia, hanno entrambi concluso con la medesima citazione di Gilbert Keith Chesterton. Quella in cui lo scrittore cattolico inglese aveva profetizzato, nel suo saggio «Eretici» del 1905, che sarebbero presto venuti i tempi in cui: «”Tutto sarà negato, tutto diventerà un credo” ... [Sarà] una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle … “Fuochi verranno attizzati per dimostrare che due più due fa quattro. Spade verranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”». Dunque, al di là del comune afflato ideale, si può dire che in quella sede si siano delineate le due diverse agende politiche sul tema della famiglia, e del rapporto con i cattolici, di quelli che ora sono divenuti i due maggiori partiti di governo: più pragmatica la posizione della Lega, che non disdegna di dare voce ai cattolici pro-life in quanto tali, ma senza rigidità ideali di alcun tipo, perché nello stesso tempo la Lega cerca di non assumere posizioni di principio sui temi divisivi come aborto, diritti civili dei gay e pari opportunità; più fondata sul piano culturale invece quella di Fratelli d’Italia, che vede nel supporto alla famiglia e alla natalità un’esigenza irrinunciabile per il proprio spirito patriottico e i propri obiettivi di rilancio nazionale. A questo riguardo la gerarchia della Chiesa italiana si limita a osservare, talvolta in cagnesco (memorabile la presa di distanze dal Congresso delle famiglie di Verona del Cardinale Parolin, Segretario di Stato vaticano: «siamo d’accordo nella sostanza non sulle modalità»), e tuttora non sembra avere abbandonato una certa freddezza. Ciò a riprova del definitivo tramonto della possibilità di far rivivere in Italia una linea politica di ispirazione cattolica in quanto tale. Nelle rispettive posizioni della Lega e di Fratelli d’Italia si intravede una differenza culturale rispetto ai cattolici – per le implicazioni che può avere sulle scelte relative a temi divisivi come l’aborto e i cosiddetti «diritti civili» – che passa anche per una concezione ben distinta dei ruoli dei due sessi di fronte alla famiglia.

Se i pro-life di ispirazione cattolica insistono su una intransigenza che richiama le classiche posizioni dei repubblicani statunitensi, dove la questione dell’aborto rimane al centro della vita politica, come dimostrano le recenti polemiche sul tema del ribaltamento della famosa sentenza Roe Vs. Wade, invece sia la Lega che Fratelli d’Italia insistono sul fatto di non volere abrogare la legge 194, rispetto alla quale l’approccio è ancora una volta pragmatico. Al proposito, entrambi i partiti insistono semmai sul tema della piena attuazione della prima parte della legge stessa, riguardo alla tutela della maternità e all’impegno dello Stato a «rimuovere le cause» che portano le donne a interrompere la gravidanza. Nonostante questo, tuttavia, come dimostra il contrasto tra la linea in materia di affidamento dei figli dei separati/divorziati del leghista Pillon e quella del ministro Roccella, il discrimine di principio tra le posizioni dei due maggiori partiti della destra sembra essere ancora quello della concezione della famiglia e del ruolo dei due sessi nella società. Il «femminismo della differenza» sembra interessare di più la linea di Fratelli d’Italia, non solo per la novità rappresentata dalla leadership femminile della Meloni, mentre la Lega si mostra più pragmatica e più interessata a inseguire consensi trasversali. Può essere utile, quindi, al di là del pragmatismo dei politici e della stessa gerarchia cattolica, cercare di indagare i fondamenti della differenza sessuale nella famiglia, per come essi appaiono non soltanto nella tradizione cattolica ma in quella di tutta la nostra civiltà occidentale. La convinzione sottintesa a questa indagine è quella per cui solo conoscendo bene le radici culturali dell’odierno fenomeno della crisi dei rapporti tra i due sessi, che a sua volta origina il problema della natalità, il tema potrà venire affrontato dal nuovo governo in modo efficace, senza fermarsi alla superficie. Risale al 2004 una lettera dell’allora Cardinale Ratzinger ai vescovi cattolici, relativa allo stato dei rapporti tra i sessi (3). Per l’autorevolezza della fonte e per il modo con cui la materia è stata trattata, senza la svolta impressa dal pontificato di Francesco, che però non è ancora chiaro se rappresenti una rivoluzione o piuttosto una parentesi, essa avrebbe potuto rappresentare una sorta di manifesto della Chiesa del XXI secolo rispetto alla questione del conflitto tra i sessi e quindi della crisi della famiglia. Tale lettera era stata approvata espressamente da Papa Giovanni Paolo II, che dopo un solo anno avrebbe lasciato la cattedra di Pietro allo stesso Joseph Ratzinger. Quindi riveste la dignità del magistero pontificio, ed è un testo pieno di rimandi e di profondi riferimenti filosofici e culturali, come del resto era nello stile del grande teologo tedesco. Essendo stata rivolta all’episcopato, e quindi a un collegio di uomini di Chiesa che ben conoscono le Sacre Scritture e il magistero precedente in materia familiare, la lettera portava con sé un ricchissimo «testo implicito», che tuttavia vale la pena di indagare partendo dalle origini. Laddove si intendono «le origini» per definizione, e cioè il testo biblico della Genesi. Ma prima è opportuna un’avvertenza generale, anche per comprendere meglio le implicazioni che sussistono nel nostro discorso rispetto alla politica attuale in tema di famiglia: i documenti che si stanno esaminare, pur essendo espressione di magistero cattolico, non sono fonti di tipo precettivo, cioè non sono un insieme di «comandi» o di «consigli» che Dio, o la Chiesa, abbiano inteso rivolgere alla parte maschile e femminile dell’umanità. Sembra una precisazione banale, ma ad avviso di chi scrive non inutile. Ciò in quanto che, per una sorta di paretiana «persistenza degli aggregati» (4) una parte notevole dell’opinione pubblica, anche quella meglio disposta verso la religione, tende sempre e comunque a considerare quel che viene dal magistero cattolico sotto la categoria del comando o del divieto. Come se la forma tipica del pensiero cattolico fosse quella del precetto, da accogliersi con maggiore o minore benevolenza, ma sempre e comunque come si accoglie una norma. Per questo, non si tratta di una precisazione irrilevante. Infatti – secondo il modo di pensare oggi più diffuso, al quale i partiti sono inevitabilmente molto sensibili – essa comporta una inevitabile conseguenza che non dovrebbe sfuggire agli analisti politici: poiché viviamo in una cultura relativista e più o meno falsamente libertaria, si ritiene che determinati principi, proprio in quanto precetti, non avrebbero alcun diritto di cittadinanza nel dibattito politico, ma sarebbero accettabili solo per i cattolici che vi si sottomettono liberamente (a volte dietro opportune verifiche sulla loro effettiva capacità di intendere e volere, e sulla reversibilità delle loro scelte). È il cosiddetto «divieto di fare domande» del quale il grande filosofo Augusto del Noce parlava già all'inizio degli anni '70, ben prima che si affermasse il politicamente corretto, per segnalare la tendenza a escludere dallo spazio pubblico tutte le grandi questioni sui temi ultimi relativi all'uomo e alla società (5). Secondo il galateo del politicamente corretto, al quale nemmeno i leader del nuovo governo di destra-centro riescono a essere indifferenti, certe tematiche, se proprio non si ha il bon ton di estrometterle dal linguaggio politico, non dovrebbero mai essere proposte ad un pubblico indifferenziato, e quindi agli elettori. Quanto meno, esse dovrebbero essere precedute da una specie di avvertenza per cui «valgono solo per chi ci crede» e giammai per insieme della società, sotto pena dei peggiori sospetti di intolleranza e oscurantismo. Tuttavia, al contrario, la dottrina che si sta per esporre non è affatto un «catechismo», perché affonda le radici in tutta la cultura giudaico-cristiana e nelle migliori espressioni filosofiche – soprattutto laiche – della storia dell’Occidente. Nondimeno, essa ha la sfacciata pretesa di essere relativa all’essenza dell’uomo e della donna: si tratta cioè di una spiegazione, o – se il termine meglio soddisfa gli agnostici e i dubbiosi – di una «ricerca» su quel che l’uomo e la donna, e in particolare coloro che vivono l’esperienza della paternità della maternità, sono nella loro più intima essenza. Questo indipendentemente dalla loro volontà e dalla loro consapevolezza, e a prescindere dal fatto che siano credenti, o che decidano di comportarsi in maniera più o meno coerente con i presupposti dei loro convincimenti. Non si tratta nemmeno di consigli per la vita: si tratta piuttosto di un discorso attorno alla verità della vita, che una politica culturalmente fondata dovrebbe non presupporre ma anteporre, per quanto ormai il concetto stesso di «verità» sembri diventato un tabù. Si tratta altresì di una questione che riguarda drammaticamente tutto l’Occidente del XXI secolo, e va oltre la questione contingente delle politiche per la natalità o il supporto economico alle famiglie: la sopra citata lettera del cardinale Ratzinger, commentando il peccato originale descritto dalla Genesi, annotava che «quando l'umanità considera Dio come suo nemico (e, aggiungiamo noi, nega o stravolge le differenze di genere da Lui volute per la creatura umana) la stessa relazione dell'uomo e della donna viene pervertita. [Ma] quando quest'ultima relazione è deteriorata, l'accesso al volto di Dio rischia, a sua volta, di essere compromesso». In questo senso, il dettato della Genesi pretende quindi di avere un valore universale e perenne. Dice dunque il testo ispirato, al capitolo 3 (versetti 16 e seguenti), laddove il Signore espone a Adamo e a Eva la condanna consequenziale al loro peccato originale: [Il signore Dio] alla donna disse: Moltiplicherò I tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà. All’uomo disse: poiché hai ascoltato la voce di tua moglie …. Maledetto sia il suolo per causa tua!

Con dolore ne trarrai il cibo Per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te E mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai! (6).

Queste parole compaiono nel testo sacro in forma poetica, e questo suggerisce che nell’antichità esse fossero particolarmente conosciute anche al di fuori della cerchia sacerdotale e degli interpreti professionali delle Scritture: nelle società tradizionali la diffusione popolare dei testi sacri fondamentali avveniva oralmente, e la forma poetica serviva a facilitare questa trasmissione, oppure – al contrario – la versione poetica del testo si formava proprio grazie alla sua popolarità e quindi alla sua costante ripetizione. Dal suddetto testo, in ogni modo, desumiamo che: 1) Esistono alcune attribuzioni fondamentali, differenziate e specifiche dell’uomo in quanto maschio o femmina, che fanno parte della condizione successiva al peccato originale. 2) Proprio in quanto espressione della condizione umana posteriore alla caduta, queste attribuzioni sono immutabili, e valgono per tutta l’umanità di tutte le epoche, culture e situazioni di vita. Essendo conseguenti alla condanna originaria della specie umana, non derivano da quello che determinati uomini di determinati popoli o culture abbiano realizzato all’interno della storia, nel bene o nel male. Sono invece i fondamenti della natura umana posti dal Creatore all’inizio della storia così come noi la conosciamo, che accompagneranno l’umanità fino alla parusìa, cioè fino alla fine della storia così come noi la conosciamo. 3) Non per questo, tuttavia, bisogna pensare che la condizione precedente al peccato originale fosse quella di un’umanità indifferenziata sul piano sessuale. La stessa Genesi, ben prima della narrazione del peccato originale, precisa che Dio creò l’uomo «maschio e femmina» (1, 27). Quindi la differenza sessuale preesiste alla caduta e all’inizio della storia, e – come precisato esplicitamente dalla citata lettera di Ratzinger – sopravviverà, sia pure in forma trasfigurata, all’esito della resurrezione della carne dopo la seconda venuta del Cristo. Si ritrovano nel programma antropologico di Genesi 3,16 le qualità fondamentali del pensiero maschile e femminile: il pensiero maschile è per sua natura lineare, teso ad una comprensione di tipo pratico del mondo, in quanto è vocazione dell’uomo saper trasformare il mondo per adattarlo alle esigenze di sopravvivenza della specie. Il pensiero femminile è invece circolare, teso a cogliere le relazioni tra i fenomeni, in quanto la vocazione femminile è quella della cura e protezione della specie, e quindi la sua esigenza fondamentale è quella di comprendere il mondo per saperlo meglio conservare (7).

In questo semplice schema è racchiusa la teoria cara alla psicologia analitica fondata da Carl Gustav Jung, sui rischi dell’influenza archetipica della Grande Madre nelle società moderne, laddove il maschio viene limitato nel proprio naturale slancio vitale, creativo e anche capace di donazione disinteressata. La Grande Madre vuole ridurre l’uomo a mero consumatore, a soggetto passivo della realtà, a puer eternus, proprio perché solo se si mostra docile e controllato può essere protetto. Secondo questo schema si spiegano anche tante esperienze quotidiane del rapporto tra sessi, che proprio per il loro minimalismo dimostrano la profonda verità dell’assunto della Genesi (8). Per fare un esempio, ben noto a chi lavora con le crisi della famiglia, pensiamo ai conflitti tra suocera e nuora, che sembrano materia da barzellette ma in realtà secondo molti sono alla base di una percentuale enorme di separazioni coniugali. È normale che in queste situazioni sia soprattutto il maschio, che è insieme figlio e marito, ad essere come suol dirsi «preso in mezzo», perché ognuno dei contendenti vorrebbe vederlo dalla propria parte e tende ad accusarlo di non essere abbastanza schierato, come si riterrebbe giusto. Questo conflitto della moglie con la famiglia di origine del marito, che è assai comune, può essere meglio compreso ed affrontato se si ritorna al dettato della Genesi: in realtà è un tipico conflitto femminile, è lo scontro tra due aspetti contrastanti della condanna di Eva. La madre e suocera non vuole accettare la separazione dal figlio, perché prova i dolori del parto, cioè i dolori della separazione, mentre la moglie e nuora non tollera le intromissioni della rivale proprio perché «verso l’uomo è il suo istinto», e ha bisogno di non dividerlo con altre donne ed essere dominata – ma anche protetta – esclusivamente da lui. Si tratta di un semplice esempio minimalista ma se ne potrebbero fare molti altri. Quello che qui preme sottolineare è che Genesi 3,16 descrive le conseguenze del peccato originale, cioè di una caduta che ha privato l’uomo della sua condizione originaria e autenticamente naturale, che sarebbe stata voluta dal Creatore. È con il peccato originale che il dolore, la morte, la finitezza, ma anche l’incapacità di cogliere l’evidenza di Dio, entrano nel mondo. Non per questo però si deve ritenere che certi elementi tipici della natura maschile e femminile siano sorti solo dopo la cacciata dall’Eden: infatti la Genesi stessa, come tutte le scritture compreso il Nuovo Testamento, ci ricordano che la differenza sessuale è preesistente alla caduta. In altri termini, essere maschio e femmina non è frutto di una colpa: l’umanità originaria non è, nella visione giudaico-cristiana, simile al mito filosofico greco (9) che – forse per rispondere ad un’esigenza di unità e di purezza tipica dell’idealismo platonico – voleva che alle origini esistesse solo un essere umano ermafroditico, e racchiudente in sé entrambe le sessualità in una unità indistinta. In realtà, si è maschi o femmine fin dal principio, anzi da prima del principio della storia. In particolare, alcuni essenziali attribuzioni maschili sono preesistenti al peccato originale, e tra queste vi è la vocazione al lavoro, ma anche quella al dono. Secondo la Bibbia, infatti, l’uomo è stato posto nel paradiso terrestre ut operaretur (Genesi 2,15). Cioè perché lo lavorasse, lo trasformasse, lo rendesse conforme alle esigenze sia proprie che della specie. In questo vi è anche la dimensione del dono, perché all’uomo fin dall’origine è stata data una compagna affinché lo aiutasse, che è la donna, ma anche una dimensione sociale, una famiglia e una comunità a cui provvedere. Non si deve infatti pensare che l’umanità originaria fosse composta solo da Adamo ed Eva, nudi e ingenuamente contemplativi del meraviglioso giardino in cui la paterna mano di Dio li aveva posti. La radice del termine semitico Adam non indica solo l’uomo, ma l’umanità intera: è un termine plurale. La narrazione della Genesi che riguarda Adamo in realtà è relativa ad una umanità plurale, già strutturata in forma comunitaria, nonostante la forma poetica e mitologica tipica della cultura dell’epoca in cui visse l’estensore materiale del testo biblico, che ha portato a pensare che Adamo ed Eva fossero solo due individui. Quindi, nella condizione originaria dell’essere umano, quella voluta da Dio, nella natura dell’uomo vi è non solo la trasformazione dell’esistente, ma anche la vocazione alla socialità, e cioè a donare i frutti del proprio operato per il bene dell’altro. Mentre nella natura femminile vi è la cura della famiglia e la conservazione della specie, che di questo dono partecipa. Ciò che è venuto dopo il peccato originale – cioè la perdita dell’amicizia con Dio – sono il dolore, la fatica, la morte, cioè quegli aspetti dell’esistenza umana che rendono difficile la realizzazione della propria vocazione. La perdita dei cosiddetti doni preternaturali rende cioè possibile l’esperienza dell’errore, della contraddizione, dell’innaturalità, del fallimento, ma non toglie che anche per l’umanità decaduta esista una via naturale – cioè conforme alla volontà di Dio – seguendo la quale si può realizzare anche su questa terra la felicità. Vengono in mente, a questo riguardo, le parole di Henri de Lubac (10), riferite al dramma sociale dell’umanesimo ateo ma perfettamente applicabili anche alla condizione individuale: non è affatto escluso che l’uomo possa costruire una società senza Dio, quello che è certo è che in definitiva essa si risolve in una società contro l’uomo. Ripetiamolo: l’essere maschio o femmina in modo pieno e coerente con la propria natura – che privilegia nel maschio il pensiero lineare e la attitudine ad interagire con gli altri e il mondo per costruire la civitas terrena, e nella femmina il pensiero circolare, con l’attitudine a cogliere le relazioni per proteggere e conservare la specie, così come la famiglia – non è il frutto di una condanna. È invece un modo di essere pienamente conformi alla volontà di un Padre che ci conosce meglio di ogni altro padre, solo conformandoci alla volontà del quale potremo essere pienamente realizzati nella nostra natura e quindi felici. Tutto questo, almeno, se è vero, come è vero, che lamigliore definizione della felicità individuale – indipendentemente dal noto problema filosofico sul fatto che questa sia raggiungibile – consiste nell’essere il più possibile vicini al proprio più autentico modo di essere, e a ciò che più autenticamente si vuole essere. Insomma, a ben vedere, in questo contesto il problema della felicità individuale è tutto un problema di rapporto con un Padre; di ritorno ad un Padre. È una questione di filiazione e di appartenenza, che si pone tutta in un’ottica maschile, in quanto non è casuale e non dipende da una contingenza culturale, come ben ricorda la sopra citata lettera di Ratzinger (11), che Dio sia Padre e non madre. Per comprendere bene questo insegnamento, bisogna tenere presente che nella dottrina cattolica la differenza sessuale non è un fatto di esclusioni reciproche. È il pensiero dialettico hegeliano e poi marxista, tipico della modernità, che porta a pensare per esclusioni, e a ritenere che uomo e donna siano tesi ed antitesi, e possano completarsi in una sintesi solo trovando una composizione tra quello che è l’uno e non l’altra, e viceversa. In realtà, se è proprio della donna donare sé stessa attraverso il «prendersi cura», non per questo l’uomo non è capace di prendersi cura. Correlativamente, se è proprio dell’uomo donare se stesso nella società civile, agendo per la trasformazione del mondo, non per questo la donna non è capace di interagire politicamente, in senso lato, con le vicende del mondo. Il pensiero cattolico, infatti, non è un pensiero dialettico, fatto di tesi, antitesi e sintesi: è un pensiero della differenza, che educa a pensare la differenza.

E la differenza consiste nel fatto che l’uomo e il padre donano sé stessi prevalentemente nella dimensione sociale, anche nell’educazione dei figli, mentre la donna e la madre esplicano la loro vocazione al dono prevalentemente nell’ambito della protezione e dell’accudimento. Allo stesso tempo, il pensiero cattolico non è nemmeno un pensiero di contrapposizione, di dialettica aut-aut, bensì di reciprocità, di conciliazione, di et-et. Tutto ciò premesso, possiamo ritornare all’oggi, o per certi versi all’ieri, e cioè alla lettera del cardinale Ratzinger. Infatti, a ben vedere lo scandalo all’epoca suscitato da questa lettera, che tuttora non si spegne e rappresenta uno dei punti più critici rispetto alla libera maturazione del pensiero della destra italiana sulla famiglia, sta nel fatto di avere semplicemente ricordato che uomini e donne sono differenti. Ci sta bene a questo proposito una citazione da Thomas Mann, uno che a quanto si dice ebbe una vita familiare assai problematica sia nel rapporto col padre che con i figli (12): «Uno dei caratteri del nostro tempo è la problematizzazione di ogni cosa, anche di quelle eterne, sacrosante, indispensabili e primordiali, divenute apparentemente impossibili, apparentemente scadute, oggigiorno, in modo irreversibile. [...] La libertà, l'individualismo, un rafforzato senso della personalità [...] l'idea del "diritto alla felicità", facilitano allo scontento, al desiderio di liberazione». I commenti di parte femminista alla lettera di Ratzinger all’epoca in cui fu pubblicata erano stati – come prevedibile – tra i più interessanti. A sentire il pensiero di femministe dichiarate come Luisa Muraro oppure come la comunista Ida Dominijanni, ovvero quello di giornaliste progressiste, come Marina Terragni o Marina Valensise, sembrava per l’appunto che la grande novità della lettera in esame fosse stata quella di avere sposato il femminismo «della differenza». La stessa corrente di pensiero che oggi è attribuita al nuovo ministro della famiglia, Eugenia Roccella, che non a caso proprio su questi presupposti culturali nella scorsa legislatura si era scontrata con il più pragmatico Simone Pillon, riguardo alle politiche da adottare verso i genitori separati. Del resto, anche se con minore grossolanità, all’epoca della letteradi Ratzinger anche il pensiero di filosofi ed opinionisti maschi era stato sulla stessa linea. A parte la sua evidente strumentalità, una certa interpretazione è il tipico portato della mentalità dialettica, per cui condannare il femminismo di genere dovrebbe voler dire accedere alla sua antitesi, cioè il femminismo della differenza. Tuttavia, come sopra accennato, il pensiero della differenza è l’essenza del personalismo, che è tuttora il tratto distintivo del pensiero della Chiesa Cattolica. La novità cristiana risiede nell’avere riaffermato – con un valore aggiunto di amore ed universalità che il giudaismo non aveva – l’unicità della persona umana. Il fatto che ogni singolo uomo è creato da Dio per sé stesso e con una sua irripetibile dignità, ed è, come dice la Costituzione conciliare Gaudium et spesla sola creatura che Dio ha voluto per se stessa, [che] non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé». Questa novità è stata annunciata non solo molto prima del femminismo, ma anche molto prima che arrivasse Kant a dichiarare che l’uomo è un fine e non può mai essere un mezzo (13); imperativo categorico che dovrebbe essere alla base della cultura laica ma del quale – nel dibattito di questi giorni, ad esempio – i vari sostenitori della procreazione assistita sembrano del tutto dimentichi. Beninteso, non vi può essere dubbio alcuno sul fatto che il pensiero cattolico non è tributario del femminismo. Semmai è proprio il femminismo della differenza a poter assumere valore nella misura in cui si riconosce tributario del pensiero cattolico. Piuttosto, l’evidenza dimenticata che la citata lettera di Ratzinger ha messo in luce è l’esistenza di un’essenza immutabile dell’uomo in quanto essere sessuato, che prescinde dal dato culturale. La natura che appartiene all’uomo e alla donna in quanto creature – cioè esseri creati – e che non può essere derogata dalla libertà individuale, è il principale punto dolente affrontato dalla lettera del cardinale Ratzinger. Si tratta di una verità che è stata riaffermata in aperta polemica con il cosiddetto femminismo di genere, che appunto è quella teoria in base alla quale l’appartenenza al maschile o femminile, o eventualmente a sessualità miste o indefinite, rappresenterebbe soltanto un’opzione culturale. Non si trattava di una condanna inedita: Giovanni Paolo II più volte ha affermato quanto riportato nella lettera alle famiglie Gratissimam sane: «la nostra società s'è distaccata dalla piena verità sull'uomo, dalla verità su ciò che l'uomo e la donna sono come persone». Soprattutto, nel 2003 era stato edito, a cura del Pontificio Consiglio per la Famiglia, il «Lexicon», che ha rappresentato un punto di riferimento del Cardinale Ratzinger nella condanna del femminismo di genere. Questo Lexicon, che prende come sottotitolo «Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche» è un ponderoso tomo di oltre 800 pagine nel quale le distorsioni della verità sulla persona umana sono denunciate con nome e cognome. Il titolo del volume è «Lexicon», cioè lessico, in quanto si parte dal presupposto che la menzogna femminista – e non solo femminista – riguardo alla natura sessuata della persona umana si sia diffusa soprattutto attraverso la distorsione del linguaggio. È in questo volume, al quale il Cardinale Ratzinger si è implicitamente riferito, che è contenuta l’esplicita condanna del «femminismo di genere». Quest’ultimo, in tempi relativamente recenti, ha trovato il suo principale manifesto nell’opera della femminista statunitense Judith Butler, comparsa nel 1990 e intitolata «Il problema del genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità». L’idea centrale della Butler è – si cita testualmente – che «il genere è una costruzione culturale, non è il risultato causale del sesso. Concependo il genere come una costruzione culturale indipendente dal sesso, risulterà libero da vincoli. Di conseguenza, uomo e maschile potranno essere riferiti sia a un corpo femminile, sia a uno maschile; donna e femminile, sia a un corpo maschile, sia a uno femminile». Il Lexicon ha espressamente segnalato anche la femminista canadese Rebecca J. Cook quale principale propugnatrice della cosiddetta «sessualità polimorfa», che sviluppa l’idea di fondo della Butler. È stata appunto la Cook, in un famoso testo preparatorio della Conferenza dell'Onu sulla donna tenutosi a Pechino nel 1995, ad affermare che «i sessi non sono più due, ma cinque: donne eterosessuali, donne lesbiche, uomini eterosessuali, uomini omosessuali, individui bisessuali». Si tratta della linea di pensiero per cui, col tempo, la distinzione tra i vari generi sessuali sulla base del desiderio individuale è cresciuta a dismisura, ed è stata posta alla base della ideologia del cosiddetto «gender» e del mondo che non a caso oggi si fa definire con l’acronimo LGBTQI+, dove il «più» finale indica appunto come quello delle identità sessuali sarebbe un novero aperto e in continua evoluzione. La condanna di tutte queste preposizioni, pur senza citazione diretta dei testi, per la quale si è rinviato implicitamente al «Lexicon», è stata espressamente riaffermata dalla citata Lettera ai Vescovi di Ratzinger. Però, il problema più importante che quest’ultima affronta non risiede in queste teorie estreme, che oltretutto sono state abbandonate anche in buona parte dello stesso campo femminista: il vero problema è invece l’intera mentalità relativistica e libertaria che interessa tanti di noi. Per questo la nuova destra di governo, che in quanto tale si propone di contrapporsi ad un insieme di teorie che ormai sono diventate senso comune, dovrebbe avere su questi temi le idee assai chiare, e evitare di cadere nei tranelli del linguaggio, quelli che appunto il Lexicon ha segnalato e dai quali nemmeno nell’ambiente della comunicazione politica più accorta si è immuni. Soprattutto, nemmeno a destra si è abbastanza immuni dal pensiero dialettico, che è il vero grande alleato del femminismo di genere ma anche di tutte le costruzioni del pensiero laicista e libertario che, in ultima analisi, porta sempre agli stessi approdi del femminismo. Si è detto pensiero dialettico, e non pensiero razionalista o libertario, perché si è cercato di non cadere nel tranello linguistico in base al quale il limite del pensiero cattolico sulla differenza naturale di genere sarebbe quello di non essere razionale o di non essere liberale. O perlomeno, di essere una verità parziale, di parte.

Sono un po’ le stesse cose che in questi giorni si dicono riguardo alle pretese intenzioni della destra di governo: l’inganno sta nel fare passare la posizione cattolica sull’uomo, la donna, la famiglia, la riproduzione, come il frutto di un’opzione confessionale. Come una scelta che può andare bene per chi la vuole praticare, ma non può essere imposta agli altri e non può diventare dato normativo.

In realtà, il pensiero cattolico al riguardo è il più razionale e il più liberale che vi sia oggi in Occidente, perché è quello più fondato sulla realtà. E se il reale è razionale, come diceva Hegel, la difesa della differenza naturale di genere è la posizione più razionale ed universale che si possa avere al riguardo.

Siamo nell’epoca in cui, come profetizzò il Chesterton richiamato sia da Salvini che dalla Meloni nel sopra citato Congresso delle Famiglie, bisogna sguainare la spada per riaffermare che due più due fa quattro. Per questo, occorre ancora oggi la Verità che rende liberi, come la definisce il Vangelo (Giovanni, 8, 32). Eludendo il problema di quella Verità, considerandola nobile ma parziale, relativa, sulla quale – oltretutto, vista la sua scomodità – spesso non sembra nemmeno il caso di porre troppe domande e obiezioni, i nuovi politici che si propongono di riformare l’agenda governativa sul tema delle politiche familiari non potranno essere all’altezza del compito.



(1) Si veda l’articolo di Eugenia Roccella «Bigenitorialità, la Cassazione e i dubbi sul ddl Pillon» comparso a pagina 12 di Avvenire del 13 dicembre 2018, e altre dichiarazioni alla stampa di quel periodo dell’attuale nuovo ministro per la famiglia.

(2) L’espressione sui «valori non negoziabili» era originariamente contenuta nella «Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica», emanata il 24 novembre del 2002 dalla Congregazione per la dottrina della fede, a firma dell’allora cardinale Joseph Ratzinger che ne era prefetto. L’espressione è diventata poi la bandiera dei cattolici pro-life italiani e in generale di tutta un’area conservatrice che vuole ribadire il ruolo politico della cultura cattolica.

(3) «Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo», 31 maggio 2004.

(4) Vilfredo Pareto (1848-1923), sociologo, sosteneva che la maggior parte delle azioni umane fossero non- logiche e si giustificassero sulla base di una serie di principi fissi, detti residui, ai quali si aggiungevano parti variabili, dette derivazioni. Le due principali classi di residui erano appunto l’istinto delle combinazioni e la persistenza degli aggregati. Quest’ultima sarebbe l’innata tendenza umana a mantenere associati alcuni concetti, ben oltre il punto in cui questa associazione può dirsi giustificata dalla logica e dall’evidenza. (5) Cfr. A. Del Noce, U. Spirito, «Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?», Rusconi, 1971.

(6) La traduzione italiana è quella della Bibbia di Gerusalemme, versione CEI.

(7) Su questo argomento, assai pertinente è la relazione del professor Pierpaolo Donati, ordinario di Sociologia all’Università di Bologna, su L’identità maschile e femminile: distinzioni e relazioni per una società a misura della persona umana, presentata il 6 marzo 2004 a Bologna in un convegno organizzato dai centri di formazione familiare Oeffe.

(8) Riguardo alla possibilità di verificare l’assunto di Genesi 3,16 nell’ambito delle crisi familiari, cfr. Ugo Borghello, Le crisi dell’amore, prevenire e curare i disagi familiari, Ares, 2000. (9) Il mito androgino platonico è narrato da Aristofane nel Simposio, XIV, 189-190.

(10) Henri de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Jaca Book.

(11) La Lettera ai vescovi prima citata così dice, polemizzando indirettamente contro il femminismo di genere: «La radice immediata della suddetta tendenza si colloca nel contesto della questione femminile, ma la sua motivazione più profonda va ricercata nel tentativo della persona umana di liberarsi dai propri condizionamenti biologici. Secondo questa prospettiva antropologica la natura umana non avrebbe in se stessa caratteristiche che si imporrebbero in maniera assoluta: ogni persona potrebbe o dovrebbe modellarsi a suo piacimento, dal momento che sarebbe libera da ogni predeterminazione legata alla sua costituzione essenziale. Questa prospettiva ha molteplici conseguenze. Anzitutto si rafforza l'idea che la liberazione della donna comporti una critica alle Sacre Scritture che trasmetterebbero una concezione patriarcale di Dio, alimentata da una cultura essenzialmente maschilista. In secondo luogo, tale tendenza considererebbe privo di importanza e ininfluente il fatto che il Figlio di Dio abbia assunto la natura umana nella sua forma maschile. … Dinanzi a queste correnti di pensiero, la Chiesa, illuminata dalla fede in Gesù Cristo, parla invece di collaborazione attiva, proprio nel riconoscimento della stessa differenza, tra uomo e donna».

(12) L’ultima edizione italiana è: Thomas Mann, Sul Matrimonio, SE, 1999.

(13) Immanuel Kant, Critica della ragion pratica: «Agisci in modo da trattare l'umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona dell'altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo».





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