Articolo per "La Verità", novembre 2018
Rieccola qui, la mediazione familiare. Vi è un certo ritorno di attenzione su questa opportunità per le coppie in crisi, che in Italia è ancora decisamente poco conosciuta e praticata. Si tratta di uno degli effetti del disegno di legge Pillon sulla riforma dell’affidamento condiviso, e anche in questo caso, come al solito, i commenti fuori luogo si sono sprecati. E forse stavolta lo si deve anche al fatto che la mediazione familiare non è mai veramente decollata nel nostro Paese. I soliti ambienti di sinistra e femministi, ovviamente ostili alla riforma, stanno invocando a sproposito conflitti di interesse e altri possibili sfracelli. Ma a parte la consueta faziosità, certi interventi – anche da parte di opinionisti cattolici – hanno dimostrato una sorprendente ignoranza su cosa la mediazione familiare sia davvero, e come si rapporti all'avvocatura e ai magistrati in presenza di separazioni e divorzi. Dunque, per fare chiarezza sul punto è bene premettere che, a differenza di quel che pensano molti, la mediazione familiare non è uno strumento per prevenire o curare le patologie di una famiglia in crisi. Almeno, non lo è nel modo con cui finora è stata intesa e praticata in Italia. Al contrario, nella nostra attuale realtà giuridica e sociale il mediatore familiare interviene su base volontaria in un’estrema minoranza di casi, quasi residuali rispetto all’enorme mole di separazioni e divorzi che ogni anno si discutono nei tribunali. Il più delle volte i nostri mediatori, per loro scelta, entrano in scena soltanto quando la rottura dell’intesa coniugale è già irreversibile, al punto che alcuni si rifiutano persino di incontrare le coppie in crisi, se tra di esse non si è ancora consumata almeno di fatto la cessazione della convivenza. Infatti, lo scopo che in Italia questa disciplina si è data è aiutare i coniugi a dirsi addio con il minore contenzioso possibile, ma pur sempre in modo inesorabile e senza ripensamenti. In questa accezione, la mediazione familiare punta a confezionare un accordo di separazione consensuale attraverso l’intervento di un terzo imparziale, esperto nella gestione dei conflitti, al solo fine di evitare che le penose e interminabili liti che spesso accompagnano la fine di una famiglia si trasferiscano in tribunale, e divengano eccessivamente dispendiose oltre che estenuanti. Il disegno di legge del senatore Pillon ripropone ciò che si era tentato di fare fin dal 2006, ai tempi della prima introduzione dell'affidamento condiviso, rendendo obbligatorio per le coppie con figli un tentativo di mediazione prima di poter accedere alla separazione, anche se consensuale. Nello stesso tempo, cerca di riqualificare la professione di mediatore familiare – che oggi è del tutto libera – attraverso l’istituzione di un apposito albo professionale, del quale si era discusso (senza alcuno scandalo della sinistra e dell’avvocatura) anche nelle ultime legislature. Nel 2006 ci si era limitati a introdurre una norma innocua, per la quale i presidenti dei tribunali già oggi possono semplicemente rinviare i loro provvedimenti “per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo”. Ma è molto poco, se si considera che nella prassi a questi rinvii non si ricorre praticamente mai. Invece il mediatore familiare, nella rivoluzionaria logica della riforma in corso, dovrà anche – seppure non obbligatoriamente – aiutare i genitori in via di separazione nella redazione del piano genitoriale per la futura gestione dei figli. Questo caricherà di notevoli responsabilità la nostra mediazione familiare, che in molti Paesi europei e americani è una realtà più avanzata rispetto all’Italia. In alcuni di questi un tentativo di mediazione è obbligatorio in tutte le cause anche non inerenti alla famiglia. In altri Paesi come Francia e Spagna, pur non essendo obbligatoria, la mediazione familiare è realmente sollecitata da parte dei tribunali, mentre in molti Stati degli Usa e nel Canada rappresenta un percorso incomparabilmente meno costoso della causa di divorzio – anche perché finanziato da fondi pubblici – e quindi è diventato una scelta quasi obbligata. In Inghilterra e Galles la mediazione familiare è obbligatoria dal 1996 e può addirittura durare fino a un massimo di 27 mesi, prima che le coppie con figli vengano autorizzate a accedere al divorzio. A differenza che nel nostro ordinamento, infatti, il legislatore britannico invita i coniugi in crisi a considerare “la possibilità di salvare il rapporto matrimoniale riconciliandosi”, e ove ciò fosse impossibile “a riflettere approfonditamente circa l’impostazione del proprio futuro al di fuori della coppia, valutando con ponderazione gli effetti delle proprie decisioni”. Insomma, in tanti Paesi sussiste ancora, almeno in principio, il richiamo alla responsabilità dell’essere coniugi e genitori. A differenza che in Italia, non si considera il divorzio come un primario diritto di libertà prevalente sul matrimonio, con buona pace di quel che tuttora direbbe la nostra Costituzione. Tanto che il Family Law Act britannico del 1996 ha stabilito come principio generale che “l’istituzione del matrimonio deve essere supportata”. Un messaggio che da noi, nonostante la cultura cattolica ancora apparentemente prevalente, oggi appare ancora scandaloso, ma se venisse introdotto nell’ordinamento in maniera effettiva potrebbe cambiare molte cose. Va da sé che il percorso delineato dal ddl Pillon dovrà affrontare svariate criticità, come la preparazione tecnica e culturale degli operatori che si occupano della mediazione familiare. Infatti, essa dovrebbe diventare espressione dell’esigenza del “farsi aiutare” che molte volte le coppie in crisi rifiutano per individualismo, sfiducia o mancanza di opportunità. Affidarsi per davvero all’aiuto di esperti competenti, invece, spesso è l’unico modo di superare un'esperienza devastante come il divorzio. Per questo, a parte la mediazione familiare, sarebbe opportuno che il sistema giuridico favorisse altri percorsi come la terapia di coppia, la conciliazione familiare o il diritto collaborativo. Si tratta di particolari protocolli con i quali i professionisti si impegnano a adottare un profilo non contenzioso di gestione delle crisi familiari o di coppia. Il presupposto necessario per l’utilità di queste pratiche alternative è che i genitori decidano di mettersi in gioco, e non siano indotti a anteporre la libertà sentimentale e il proprio interesse a quello della prole. Per questo, sarebbe problematico e in buona parte impossibile introdurre queste “buone pratiche” come obbligatorie. Ma nello stesso tempo sarebbe importante che lo Stato iniziasse a chiedere seriamente ai coniugi e ai conviventi in crisi di assumersi la responsabilità genitoriale, invece di ingerirsi pesantemente nel loro conflitto. Attualmente, infatti, sono decine di migliaia all’anno le consulenze tecniche che i giudici richiedono ai vari esperti di psicologia e psichiatria infantile, per dirimere le liti giudiziarie tra genitori anche su questioni di poco conto. Ai periti vengono posti quesiti intricati e spesso superflui, che hanno di fatto costruito una sorta di “ideale genitoriale” molto lontano dalla quotidiana imperfezione nella quale tutti noi cresciamo i nostri figli. Tra l’altro, queste figure di esperti talvolta hanno costruito tra di loro e con i giudici autentici intrecci di convenienze e di potere, e in troppi casi si sono prestati a essere una sorta di sindacalisti del genitore più rivendicante, favorendo una prassi che in definitiva finisce per espropriare le coppie della loro genitorialità. Anche per questo, la mediazione familiare obbligatoria prevista dal ddl Pillon potrà senz’altro migliorare la situazione, se con essa si tornerà a una vera cultura della famiglia. Ma per arrivare a ciò, lo Stato dovrà ritirare la pretesa di governare i conflitti tra genitori con un occhio preferenziale per i diritti individuali, piuttosto che per le ragioni della famiglia stessa.
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