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Immagine del redattoreStudio Legale Fiorin

Infedeltà e addebito: anche nei matrimoni vip non sempre vale la tolleranza del coniuge tradito.

Le questioni di infedeltà coniugale non passano mai di moda. Se poi si tratta delle separazioni dei personaggi famosi, ce lo insegnano pure le cronache rosa, anzi le prime pagine, di questi ultimi giorni. Le persone comuni si appassionano ai risvolti giuridici di simili storie, non solo se riguardano ex calciatori o ex veline televisive, pur non capendone granché. Lo dimostra l'immarcescibile successo di trasmissioni tipo Forum. Eppure, quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sua recentissima ordinanza n. 25966, pubblicata il 2 settembre 2022, dovrebbe interessare anche ai colleghi difensori dei suddetti personaggi. Infatti, si è trattato di una separazione tra facoltosi vip, sia pure meno glamour di quelli del momento, e guarda caso del problema dell’addebito per violazione del dovere di fedeltà coniugale.

Secondo la giurisprudenza consolidata, la pronuncia di addebito per infedeltà, che tuttora nel nostro ordinamento comporterebbe la non indifferente conseguenza della perdita del diritto al mantenimento, ricorre soltanto qualora sia accertato il nesso di causalità tra l’infedeltà stessa e la crisi coniugale che ha portato alla separazione. Quando invece la violazione del dovere di fedeltà è avvenuta dopo che la crisi era già conclamata, tanto da costituire non tanto la causa quanto una conseguenza della disaffezione coniugale già in atto, la pronuncia dell'addebito è da escludersi.

Per l'appunto, l'ordinanza in esame ha riguardato il caso di un imprenditore, titolare di un noto marchio del settore dell'abbigliamento, separatosi dalla moglie che - con circostanza incontestata - gli era stata infedele. Quest'ultima, in un primo tempo, era riuscita a evitare la pronuncia di addebito a proprio carico per le ragioni suindicate. Inoltre, nel corso della causa, aveva rinunciato all'assegnazione della casa coniugale e si era trasferita a vivere a Londra con il figlio. Pertanto, in primo grado, l'assegno mensile per il mantenimento dell’ex consorte era stato determinato in 20 mila euro mensili, mentre, per quanto riguarda il figlio, il Tribunale di Firenze si era limitato al relativamente modesto importo di 500 euro mensili, più il 100% delle spese straordinarie a carico del padre.

La Corte d'Appello aveva successivamente accolto l'impugnazione della moglie, ormai stabilmente trasferitasi a Londra con il figlio, rideterminando il contributo in un modo più adeguato alle esigenze del suo status coniugale e al costo della vita all'ombra del Big Ben. L'importo infatti era stato elevato ai più decorosi 60 mila euro mensili per la moglie, e 5 mila euro mensili per il figlio. Inoltre, sul presupposto che col crescere dell'età sarebbero aumentate anche le esigenze di vita, la Corte d’Appello aveva decretato una singolare rivalutazione dell’assegno per il mantenimento del ragazzo, che nel giro di quattro anni sarebbe lievitato fino a 19 mila euro mensili. Si era accertato infatti che, come del resto anche prima del trasferimento a Londra, il ragazzo viveva in un appartamento interamente spesato dal padre, ma nella capitale britannica la madre avrebbe dovuto affrontare canoni di locazione da 9 mila euro mensili. L'aumento dell'assegno è dunque stato motivato dal fatto che la moglie ritrovava nell'assegno di mantenimento la sua unica fonte di reddito. Non rilevava che, nello stesso tempo, la signora avesse ottenuto un patrimonio immobiliare di valore pari a 4 milioni circa di euro. Quello che conta in simili situazioni, infatti, non è il patrimonio quanto il reddito, che nella fattispecie era nullo rispetto a quello dell’imprenditore, che nelle ultime dichiarazioni al fisco era invece lievitato fino a oltre 6 milioni e mezzo all'anno.

La Corte d'Appello aveva pertanto ritenuto che il tenore di vita da prendere in considerazione per la quantificazione dell‘assegno di mantenimento (essendosi in sede di separazione e non di divorzio) doveva essere sì commisurato alle potenzialità economiche dei coniugi. Tuttavia, nel contempo, ha escluso che l'importo “debba corrispondere alla capacità di spesa familiare (e meno male, n.d.r.), in quanto che, oltre un certo limite, questo criterio comporterebbe per il coniuge richiedente una capacità di risparmio contrastante con la finalità del contributo in questione, volto alla mera conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”. In altri termini, anche in queste situazioni di forte benessere economico, non si ritiene il caso di attribuire alle mogli separate degli importi superiori a quello che effettivamente possono spendere per il proprio mantenimento personale, costringendo il marito a finanziare anche le loro opportunità di risparmio e investimento.

A causa di quanto sopra deciso dalle corti territoriali, il ricorrente in Cassazione, che si deve essere sentito alquanto spremuto, ha proposto ben cinque motivi di ricorso, mentre la moglie controricorrente ne ha proposti tre. Tra i vari quesiti, l'aspetto più interessante, anche ai fini dell’attualità, riguarda proprio il tema dell'addebito della separazione per violazione del dovere di fedeltà.

Nella fattispecie, l'istituto in questione non era stato applicato dai giudici del merito, in quanto sarebbe risultata una certa “tolleranza” da parte del marito nei confronti delle ripetute relazioni extraconiugali della sua signora. A questo riguardo, la Cassazione ha accolto la doglianza dell'imprenditore, affermando che l'eventuale accettazione dei comportamenti infedeli tenuti dalla moglie alcuni anni prima della domanda di separazione, anche se era indice del fatto che questi ultimi non avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza, non escludeva comunque “la possibilità di fare valere, quale causa di addebito, analoghi comportamenti tenuti successivamente dalla medesima coniuge".

Infatti, secondo la Suprema Corte è ben vero che l’addebito può venire escluso dal fatto che “l'infedeltà non abbia costituito la causa efficiente della crisi matrimoniale, essendosi manifestata in presenza di un deterioramento dei rapporti già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da convivenza ormai meramente formale”. Questa situazione deve però essere verificata “mediante una rigorosa indagine e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi”, laddove spetta al richiedente di provare l'efficacia causale del tradimento nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre il coniuge fedifrago per scagionarsi dovrà provare l’anteriorità della crisi matrimoniale rispetto al verificarsi dell’infedeltà.

Tuttavia, ed è qui l'aspetto interessante, secondo questo arresto della Cassazione “è irrilevante la prova della tolleranza eventualmente manifestata da un coniuge nei confronti della condotta infedele tenuta dall'altro”. Infatti, detta tolleranza “non è mai configurabile come una 'esimente oggettiva', idonea a far venir meno l'illiceità del comportamento infedele dell’altro” e non si può nemmeno parlare di “una inammissibile rinuncia all’adempimento dei doveri coniugali, che hanno carattere indisponibile”. Piuttosto, secondo la precedente giurisprudenza citata dalla sentenza in esame, la sopportazione delle infedeltà del coniuge “può essere tenuta in considerazione solo unitamente ad altri elementi, come indice rivelatore di una crisi già in atto da tempo, nell'ambito di una più ampia valutazione volta a stabilire se le tra le parti fosse già venuta meno l’affectio coniugalis”.

La Suprema Corte ha così escluso che la tolleranza del noto imprenditore nei confronti di una prima relazione extraconiugale, intrapresa dalla moglie alcuni anni addietro rispetto alla domanda di separazione, potesse successivamente impedirgli di far valere ai fini dell’addebito la violazione del dovere di fedeltà. Questo a meno che la precedente violazione non avesse costituito la causa di una crisi coniugale già risolta, ovvero un episodio isolato, eventualmente dovuto a un temporaneo affievolimento del vincolo affettivo tra coniugi, in seguito superato con una riconciliazione.

Al contrario, nella specie il ricorrente aveva chiesto di provare che la prima relazione extraconiugale della moglie era stata seguita da altre, continuate fino all'introduzione del giudizio di separazione. In questo modo, secondo la Cassazione, il facoltoso imprenditore “aveva lasciato chiaramente intendere che la tolleranza da lui inizialmente manifestata… era venuta meno a causa delle reiterate violazioni successive del dovere di fedeltà che avevano determinato il fallimento della unione". Ne discende che, secondo la sentenza in esame, l'eventuale tolleranza nei confronti di una prima scappatella può non essere sufficiente a rigettare la domanda di addebito, essendo sempre necessario l'esame della successiva evoluzione del rapporto coniugale, e in particolare l’accertamento di eventuali successive violazioni del dovere di fedeltà, con le relative reazioni del richiedente l’addebito. Solo nel caso che, a fronte di infedeltà non meramente occasionali, eventualmente seguite da altre relazioni extraconiugali alle quali l'uomo non avesse dato importanza, si sarebbe potuto concludere che la prosecuzione della convivenza era divenuta intollerabile per altre ragioni.

A seguito di queste considerazioni, la Corte ha cassato la sentenza d'appello nella parte in cui aveva rigettato la domanda di addebito, ma ha lo stesso esaminato le questioni relative all'ammontare dell'assegno di mantenimento. Infatti, a suo dire, queste ultime non potevano ritenersi assorbite dall’accoglimento della domanda di addebito, dal momento che l'esclusione dello stesso avrebbe potuto essere confermata per altre ragioni nel giudizio di rinvio. Nel medesimo tempo, è stato rigettato il controricorso della moglie che asseriva che la richiesta di addebito in primo grado fosse stata tardiva, in quanto non contenuta nella prima comparsa avanti al presidente, né argomentata nella successiva memoria integrativa, dove si era fatto soltanto un generico riferimento alla violazione del dovere di fedeltà, bensì avanzata per la prima volta nella successiva memoria n. 183, comma VI, numero 2 del c.p.c..

Infatti, la struttura bifasica del giudizio di separazione rimanda al giudice istruttore per l’integrazione dell’esposizione della causa petendi dell'azione in giudizio. Occorre quindi sempre distinguere tra fatti principali posti a fondamento della domanda, che in quanto tali devono necessariamente essere allegati nell'atto introduttivo, e fatti secondari, la cui allegazione non è soggetta alle preclusioni dettate per la domanda principale. Considerando la domanda di addebito rientrante in quest’ultima casistica, la Corte di Cassazione ha ritenuto che essa trovi il suo ultimo termine in quello del VI comma, numero 2, dell’art. 183 c.p.c., ancorché dettato per le deduzioni istruttorie.


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