Il giudice non può prescrivere al genitore coinvolto in una causa sull'affidamento dei figli di seguire quello che, nei fatti, è un trattamento di psicoterapia. Dunque, i "percorsi di sostegno alla genitorialità" che spesso in questi casi vengono ordinati su invito dei Consulenti d’Ufficio (o talvolta direttamente dei servizi sociali interessati) sono da considerarsi illegittimi, in quanto autentici trattamenti sanitari, disposti per scopi diagnostici e finalizzati a formulare un giudizio di idoneità come genitori, nonché a superare le criticità vere o supposte che nella causa erano state allegate in ordine al rapporto familiare.
Lo ha stabilito nuovamente l'ordinanza di Cassazione, I Sezione, n. 18222 del 5 luglio 2019 (credits to Lex 24 del Sole 24 Ore per il testo), con la quale la Suprema Corte è tornata sulla necessità di ricondurre a diritto una situazione di illegittimità troppo ricorrente tra le corti di merito, in occasione del giudizi di separazione e divorzio.
La prassi di diversi tribunali, da diversi anni, è infatti quella di ricorrere con relativa facilità alla "prescrizione" - formalmente non coercitiva, ma di fatto poco meno che tale - dei cosiddetti "percorsi di recupero" delle capacità genitoriali e di un equilibrato rapporto con l’ex partner. Simili prescrizioni, spesso unite a un periodo di "monitoraggio" durante il quale la consulenza peritale rimane sospesa così come, talvolta, la potestà (e i genitori in conflitto vengono sottoposti alle invasive verifiche dei servizi sociali), dovrebbero aiutare a migliorare il rapporto coi figli. Tuttavia, nei fatti, esse espongono a un giudizio che passa per un trattamento di carattere psicoterapeutico, non fine a sé stesso ma direttamente finalizzato a acquisire - o a recuperare, se perduto - il diritto all'affidamento più o meno pieno o condiviso.
E’ infatti evidente, e viene denunciato da tempo dagli operatori più accorti, che ai sensi dell’art. 32, comma secondo, della Costituzione (confermato a livello internazionale dalla Convenzione di Oviedo del 1997, ratificata dall'Italia con la Legge n. 145 del 28 marzo 2001) un percorso psicoterapeutico di questo tipo rappresenta a tutti gli effetti un trattamento sanitario obbligatorio, e pertanto non può essere né imposto alle parti di un giudizio, e nemmeno "prescritto" sotto pena di un possibile pregiudizio processuale o sostanziale, non essendoci una norma di legge che lo preveda espressamente e lo disciplini per superiori ragioni pubbliche.
Nonostante tutto ciò, nella prassi dei tribunali, non è rara l’imposizione di questi "percorsi" di dubbia costituzionalità, da parte dei consulenti del giudice ai quali viene affidato il compito di dirimere un conflitto genitoriale. La loro "prescrizione", anche se formalmente non obbligatoria, è dunque sempre da considerarsi una violazione del principio costituzionale, perché l'assoggettamento a questi trattamenti non può mai essere pienamente volontario, libero e spontaneo, essendovi sempre la concreta possibilità che il genitore interessato, intendendo rifiutarsi anche solo parzialmente, nutra a ragion veduta il timore di essere pregiudicato nei suoi rapporti con il figlio. Si tratta peraltro di una conseguenza che davvero si verifica in modo inevitabile, dato che dall'esito di questi percorsi dipendono in pieno le modalità di soluzione del conflitto genitoriale che verranno suggerite al giudice, e poi puntualmente assecondate dallo stesso anche per carenza di strumenti alternativi per decidere.
Opportunamente, quindi, la Suprema Corte con l'ordinanza in esame ha ripreso il principio già espresso nella sentenza n. 13506 del 2015, cassando la statuizione della Corte di Appello di Perugia, che di fronte all'eccezione sopra riassunta aveva comunque confermato l’ammissibilità della prescrizione del percorso psicoterapeutico di fatto, sostenendo che "dovendosi contemperare due diritti entrambi di rango costituzionale, l’uno del genitore di autodeterminazione e di scelta circa la propria salute, e l’altro del minore a un percorso di sana crescita, la prescrizione..., in quanto disposta nell'esclusivo interesse del minore, ed essendo funzionale al superamento delle criticità emerse nel rapporto madre-figlia, deve essere interpretata quale invito giudiziale rivolto alla ricorrente, essendo comunque rimesso alla libera autodeterminazione di quest’ultima, accoglierlo o disattenderlo" (corsivo nostro).
Al contrario, secondo l'ordinanza di Cassazione in esame, la determinazione della ricorrente - nonostante che nella fattispecie si trattasse della parte che aveva chiesto in giudizio l’affidamento - in simili situazioni non può mai ritenersi effettivamente libera, essendo sempre e comunque condizionata in modo intollerabile dalla esigenza di mostrarsi, per l’appunto, pienamente idonei come genitore.
La Corte d’Appello perugina era invece sembrata scordarsi, aggiungiamo noi, che l'idoneità genitoriale deve sempre essere, oltre che presunta, anche considerata come espressione di un diritto inviolabile dell'uomo. Non solo - si noti bene - del genitore stesso, che ha il diritto al rispetto della sua vita privata e familiare (art. 8 Convenzione CEDU), ma anche del figlio, che a sua volta gode del diritto naturale e inviolabile a essere cresciuto dai suoi genitori naturali (artt. 29-30-31 Cost.).
Tra l'altro, il concetto di idoneità - altrimenti detto di capacità - genitoriale è esclusivamente giuridico, e non psichiatrico né psicoterapeutico. Ogni consulente responsabile dovrebbe sapere che non può esistere una diagnosi clinica di "idoneità genitoriale", per il semplice motivo che non è mai stato definito in psicologia uno standard di idoneità rispetto all'essere padre o madre, e quindi dovrebbe risultare superflua, oltre che illegittima, la somministrazione di quei test psicologici alla coppia genitoriale che invece a volte vengono proposti con leggerezza.
Pertanto - in barba ai principi essenziali, non solo dell'ordinamento costituzionale ma anche di tutta la civiltà giuridica e della scienza medica - si finisce per considerare l’esercizio della genitorialità come una concessione di Stato, o quantomeno come un diritto sottoposto a condizioni, preventive autorizzazioni e verifiche di idoneità.
L'ordinanza di Cassazione in esame ha quindi opportunamente chiarito che non è possibile trincerarsi dietro la formale non obbligatorietà, in quanto "la prescrizione ai genitori di un percorso psicoterapeutico individuale e di un altro, da seguire insieme, di sostegno alla genitorialità, comporta comunque, anche se ritenuta non vincolante, un condizionamento, per cui è in contrasto con l’articolo 13 e con l’articolo 32, comma 2, della Costituzione, atteso che l’intervento per diminuire la conflittualità, richiesto dal giudice al servizio sociale, è collegato alla possibile modifica dei provvedimenti adottati nell'interesse del minore".
Rimane quindi nell'ambito dei provvedimenti giudiziari coercitivi la prescrizione di un percorso di "sostegno personale", in capo ai genitori o a uno solo di essi, anche se "connotata dalla finalità, estranea al giudizio, di realizzare la maturazione personale delle parti", che al contrario secondo la Cassazione deve essere "rimessa esclusivamente al loro diritto di autodeterminazione".
La statuizione quanto mai opportuna deve essere rivolta, oltre che ai giudici di merito, anche agli abituali consulenti d'ufficio che spesso travalicano il loro compito, perché condizionati dall'intenzione di dirimere il conflitto delineando profili di maggiore o minore idoneità genitoriale, che invece come si è detto nei giudizi sull'affidamento dovrebbe sempre essere presunta, in assenza di prove contrarie. Non si tratta infatti di giudizi analoghi a quelli sull'idoneità all'adozione, che pure comportano accertamenti di siffatto tipo, perché in questi ultimi casi, a parte che la legge prevede in modo esplicito detta verifica, si tratta di soggetti non ancora genitori dell'adottando.
Al contrario, e purtroppo, la prassi di imporre ai genitori simili trattamenti psicoterapeutici di fatto, trincerandosi dietro la formale volontarietà degli stessi, fa tuttora parte del protocollo di intervento di troppi CTU dei giudizi sull'affidamento minorile, che sarebbe da abbandonare assolutamente. Ciò in quanto, come ha concluso la Cassazione nell'ordinanza in esame "se è pur vero che il decreto impugnato non ha imposto un vero e proprio obbligo alla ricorrente di intraprendere un percorso psicoterapeutico per superare le criticità del suo rapporto madre-figlia, avendo esplicitato che si tratta di un invito giudiziale, è indubbio che una tale situazione integri una forma di condizionamento idonea a incidere sulla libertà di autodeterminazione alla cura della propria salute, garantita dall'articolo 32 della Costituzione".
La causa è quindi stata rinviata alla Corte d’Appello di Perugia, in diversa composizione, affinché statuisca nel merito, rispettando il principio dell’intangibilità del diritto all'autodeterminazione dei cittadini, che specialmente nel delicato campo della vita familiare, non può ammettere condizionamenti di sorta.
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