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Immagine del redattoreStudio Legale Fiorin

Cassazione: accordi tra coniugi sui rapporti economici dopo il divorzio ancora a rischio nullità.

Passo indietro della Corte di Cassazione, sulla strada verso il riconoscimento della piena autodeterminazione dei coniugi riguardo alla disciplina del regime della separazione e del divorzio. Con l’ordinanza n. 11012 depositata il 26 aprile 2021, la Prima Sezione della Suprema Corte ha ribadito il principio per cui gli accordi tra le parti stipulati in sede di separazione e tesi alla disciplina dei reciproci rapporti economici in vista del successivo divorzio, sono in linea di principio affetti da nullità per illiceità della causa. Ciò a causa dell’indisponibilità dei diritti - e della inderogabilità dei doveri - in materia matrimoniale, ex art. 160 cod. civ..

Nella fattispecie, la Corte d’Appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, aveva invece ritenuto validi gli accordi in vista del divorzio presi dai coniugi in sede di separazione, e trasfusi nel decreto di omologa del tribunale. La Corte remittente, non considerando il decremento reddituale che il marito onerato dell’assegno sosteneva di aver subito negli anni successivi, ha confermato l’importo dell’assegno di divorzio stabilito fin dalla omologa della separazione sulla base dell’accordo delle parti. Per volontà delle stesse, infatti, una parte consistente del patrimonio immobiliare che era in comunione dei coniugi era stato attribuito alla moglie, e nello stesso tempo le era stata attribuita una rendita vitalizia a tacitazione di ogni pretesa anche per il successivo divorzio.

Tuttavia, la Cassazione ha osservato che nel testo stesso dell’accordo tra le parti, così come recepito nelle sentenze impugnate, si faceva espresso riferimento “alla disciplina futura dei rapporti economici tra le parti riferibili anche al successivo divorzio”, ritenendo esplicitamente che un simile accordo fosse ammissibile sulla base del precedente della sentenza di Cassazione n. 8109 del 14 giugno 2000. Così facendo, non era stato considerato che in quel precedente (laddove la nullità, allo stesso modo, era stata invocata dal coniuge gravato dall’assegno e non dal beneficiario) l’accordo sulla futura rendita era stato ritenuto valido sulla base del fatto che si trattava di una transazione, ancorché trasfusa in parte nella omologa della separazione, conclusa tra i coniugi per porre fine a una controversia patrimoniale tra gli stessi, senza alcun riferimento esplicito o implicito al futuro assetto dei rapporti economici conseguente a una eventuale pronuncia di divorzio.

Da ciò discendeva che, secondo quel precedente, l’assunzione da parte di un coniuge dell’obbligo del pagamento di una determinata somma “vita natural durante” si giustificava in considerazione nella complessiva situazione reddituale delle parti, in cui al credito di uno dei coniugi corrispondeva il debito dell’altro. Solo in simili situazioni, dunque, il giudice investito della questione sulla spettanza o meno dell'assegno divorzile, può ritenere valido l’accordo ed escludere di conseguenza il diritto all'assegno, in ragione dell’esistenza di crediti e debiti già in essere tra le parti, al pari di tutte le altre voci attive e passive della situazione reddituale delle stesse. Esclusivamente in questi casi, la regolamentazione negoziale risultante dalla transazione può dunque non essere in contrasto con la disciplina inderogabile dei rapporti economici tra gli ex coniugi, in quanto non limitativa della libertà di agire e difendersi nel giudizio di divorzio.

Al contrario, nel caso in esame, la sentenza della Corte d'Appello remittente faceva ritenere, quantomeno in astratto, che l'assunzione dell'obbligo di pagamento di un assegno vitalizio fosse di fatto la costituzione di una rendita sostitutiva dell’assegno di divorzio. Questa interpretazione veniva implicitamente confermata dalla stessa parte beneficiaria, controricorrente, che nelle sue deduzioni aveva chiesto la conferma della rendita medesima proprio sul presupposto che fosse stata determinata pattiziamente “tenendo essenzialmente presente la definitiva divisione delle fonti di reddito delle parti derivanti dalle aziende familiari”.

Pertanto, la Corte d'Appello non aveva tenuto separato - e nemmeno precisato - il profilo della definizione dei rapporti patrimoniali già pendenti tra le parti, con le eventuali regolamentazioni delle ragioni di debito-credito, rispetto al profilo della spettanza o meno dell’assegno di divorzio, ammettendo così la liceità del patto tra coniugi in maniera generica e astratta. Per tale motivo, la sentenza è stata cassata con rinvio ad altra sezione per una determinazione più accurata sulla spettanza o meno dell’assegno di divorzio medesimo.

Il principio di diritto stabilito mediante l’ordinanza di Cassazione in esame è dunque che, laddove i coniugi abbiano definito i rapporti patrimoniali tra loro pendenti pattuendo la corresponsione di un assegno “vita natural durante”, il giudice del divorzio deve preliminarmente qualificare tale accordo tra le parti, precisando se la rendita costituita in occasione della crisi familiare sia o meno in violazione della inderogabilità dei diritti-doveri tra coniugi in materia familiare, e quindi deve verificare se essa sia giustificata per altra causa. Se il fondamento della rendita sia quello della definizione pattizia dell’assegno divorzile, avendo come causa soltanto la crisi familiare, si deve pronunciare la nullità, in quanto spetta esclusivamente al giudice statuire sull’obbligo di pagare detto assegno, sia nell’an che nel quantum.

In definitiva, quindi, si può dire che a tutt’oggi, nonostante le aperture della giurisprudenza, la libertà di autodeterminazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi in caso di separazione e divorzio non si estende fino alla insindacabilità degli assegni di mantenimento o divorzili stabiliti per accordo tra le parti, in quanto detti assegni devono sempre essere sottoposti al giudizio della magistratura in ordine alla loro congruità. Come a dire che, nonostante i grandi mutamenti del costume, nel matrimonio la parte presuntivamente più debole sul piano economico è ancora considerata incapace di autodeterminarsi in ordine ai propri diritti, eventualmente rinunciando a essi.


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